L’Italia è uno dei paesi dell’area euro con il maggior numero di ore lavorate settimanali: 33 contro una media di 30 ore. Eppure, secondo gli ultimi dati Eurostat relativi al 2018, se si considera tutto l’arco lavorativo nella vita di un italiano, questo si ferma 31,8 anni, quasi cinque anni in meno rispetto alla media europea che è di 36,2 anni.
La previsione della durata della vita lavorativa è un indicatore sviluppato dalle istituzioni europee per monitorare l’andamento della strategia occupazionale. Questa misura indica il numero di anni che una persona, da un’età di partenza di 15 anni, si presume sarà nel mercato del lavoro nel corso della sua vita. A livello europeo, gli ultimi dati affermano che l’aspettativa della vita lavorativa è pari a 36,2 anni (in media), in crescita di 0,3 anni rispetto al 2017 e di 3,3 anni rispetto all’anno 2000.
La classifica: Italia maglia nera
Da un lato c’è l’Italia con 31,8 anni, valore più basso tra quelli degli stati europei: solo la Turchia (stato extra-europeo) ha un valore peggiore pari a 29,4 anni. Dall’altro estremo c’è la Svezia con una vita lavorativa pari a 41,9 anni insieme ad un altro stato non europeo, l’Islanda che raggiunge addirittura i 46,3 anni. Per dare un’idea della discrepanza: un’islandese che comincia a lavorare a 15 anni, termina a 61, mentre un coetaneo italiano termina quasi a 47 anni.
Senza troppe sorprese i dati parlano di una vita lavorativa più lunga per gli uomini che per le donne, con eccezione per Lituania e Lettonia. L’Italia ancora una volta ha uno dei gender gap più rilevanti con un divario di 9,4 anni: peggio solo Malta (10,6), Macedonia del Nord (12,4) e Turchia (20,4). Tuttavia, se si considerano unicamente gli stati membri dell’UE, le donne italiane hanno la più corta vita lavorativa, 27 anni, e le svedesi la più lunga, 41 anni. La media europea è di 33,7 anni. Sul versante femminile, in Italia pesano sicuramente alcuni fattori ormai diventati sistemici come il part-time involontario che caratterizza 1 lavoratrice su 5. Le difficoltà lavorative interessano anche un’altra categoria, quella giovanile per cui i Neet, cioè quei giovani che non sono né in fase di studio né occupati né in fase di formazione, sono oltre 2 milioni tra gli under 30. Un fattore che contribuisce al ritardo dell’entrata dei giovani nel mercato del lavoro, alle carriere discontinue e a prolungate fasi di disoccupazione.