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    Bergamo piange ma non si arrende #MolaMia

    Con 3416 contagi e 385 morti in 7 giorni è la provincia lombarda più colpita dall’epidemia.

    3416 contagi, + 522 nella sola giornata di domenica e 385 morti in 7 giorni a Bergamo. Questi sono i numeri della provincia di Bergamo, quella che sta pagando in assoluto il prezzo più alto dell’epidemia da Covid 19. Poco importa se nel bollettino giornaliero di lunedì la crescita dei contagi è salita “solo” di 344 unità, un numero inferiore rispetto a Brescia. Non è un dato che a Bergamo fa tirare un sospiro di sollievo, perché sulla città grava un senso di impotenza che i dati numerici leggermente in flessione non riescono ad arginare.

    Il numero rientra nella statistica, ci sta, ma dalle pagine dell’Eco di Bergamo, da quelle 11 pagine che oggi somigliano più ad un bollettino di guerra, non si susseguono numeri. Sono nomi, volti, pezzetti di storia della città orobica, gente comune, padri, madri, figli e amici che nel silenzio rotto solo dal suono delle sirene se ne sono andati, e continuano a farlo, senza neppure il conforto di un ultimo saluto.

    Questa è Bergamo oggi. Un rispettoso e doloroso silenzio dove non si riesce a trovare la forza di unirsi ai numerosi flash mob che hanno sollevato il morale, seppur momentaneamente, in altre città italiane. D’altronde come si potrebbe guardare a tutte quelle bare assiepate nella quiete delle chiese bergamasche, se non con un ossequioso silenzio?

    A Bergamo si fatica a non scoppiare. Su tutti i fronti. Si fatica ad arginare il contagio, si fatica a prestare assistenza a chi è vivo e lotta per sopravvivere, ma si fatica anche a contenere la morte, che insieme al contagio sta mettendo in crisi le strutture. A partire dagli obitori, che non hanno più posti per accogliere le salme di chi non ce l’ha fatta, e che trovano posto nelle chiese della città, ora grandi sale mortuarie, prima di poter essere sepolte, sole, senza funerale. Ma c’anche il problema del forno crematorio, sollevato dallo stesso Sindaco di Bergamo Giorgio Gori, che non è in grado di smaltire tutte le richieste pervenute in questi giorni, così l’attività di cross normalmente svolta per portare in altri ospedali i malati, ora si fa per spostare i morti in altri luoghi per la cremazione.

    Al Papa Giovanni XXIII, in prima linea nell’emergenza, si regge ma la fatica è estrema. A lanciare l’allarme è il vice presidente dell’Associazione degli anestesisti rianimatori Aaroi-Emac Lombardia, Ivano Riva, in un’intervista rilasciata all’Ansa: “La situazione qui è gravissima – ha detto riferendosi alle terapie intensive– siamo arrivati a 70 posti letto, più altri 20 in sub intensiva e stiamo allestendo altri 12 posti in terapia intensiva, ma prevediamo verranno occupati nelle prossime 24 ore”. A Bergamo si è rischiato anche di non avere ossigeno a sufficienza per aiutare i malati nella respirazione. Si è sfiorata la fine. Ora, fanno sapere dalla dirigenza ospedaliera, è stata implementata la portata dell’ossigeno del 10%, aggiungendo ai due serbatoi anche un evaporatore mobile e un’autocisterna da 30mila litri di ossigeno liquido. Manca anche il personale. Il contagio non ha risparmiato nessuno, dagli operatori sanitari alla dirigenza, che conta 3 su 4 amministratori colpiti, sono un’ottantina quelli ammalati. E c’è chi non ha vinto la battaglia, come Diego Bianco il tecnico di Soreu morto sabato e Ivana Valoti, l’ostetrica di Alzano deceduta poche ore dopo la madre.

    Per chi resta in trincea non è solo il peso dei turni massacranti a farsi insopportabile, ma anche quello emotivo, che forse prova ancora di più. Il Covid 19 si porta via tutto, anche l’ultima carezza, l’ultimo gesto di pietas prima della fine, lasciato tra le mani degli unici che si possono avvicinare ai malati. Numerose le testimonianze dei sanitari che hanno raccolto gli sguardi, non le parole, perché il maledetto virus lo toglie, il fiato. Quegli occhi che penetrano come lama affilata e feriscono nel profondo e ti sbattono davanti tutta l’inadeguatezza umana del trovarsi a tu per tu con la morte. Il Vescovo di Bergamo, Monsignor Francesco Beschi, li ha esortati ad impartire l’estrema unzione.

    Tocca a loro, agli operatori, anche questo fardello. Mai come adesso, come diceva Peguy, è sperare la cosa più difficile. La cosa più facile è disperare, ed è la grande tentazione. Ma siamo di fronte ai bergamaschi, a chi è abituato a fare fatica, a tener duro. #MolaMia, che in dialetto significa non mollare, è l’hashtag lanciato in rete a sostegno di Bergamo. In soccorso arrivano i militari con un supporto medico e infermieristico, la solidarietà di tanti imprenditori che ai piedi delle Alpi Orobie hanno i loro quartier generale, come Brembo, ma anche l’Atalanta e i cugini nerazzurri di Milano che hanno donato 65mila mascherine. Insieme al piccolo, silenzioso esercito di volontari che si occupa di consegnare spesa e farmaci agli anziani e agli ammalati e ai giovani medici che fanno diagnostica domiciliare per evitare di congestionare gli ospedali. Il direttore del Pronto Soccorso del Papa Giovanni XXIII parla a Repubblica di “Bergamo- Wuhan, come laboratorio mondiale”, un modello che potrà essere d’aiuto agli altri. Ma che prezzo?

    Micol Mulè

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