Ilva su tutte: negata garanzia sul prestito di 400milioni nel decreto “rilancio”. Allentata la morsa del virus, l’emergenza sociale è dietro l’angolo con 250mila lavoratori a rischio per crisi aziendali.
Ilva, Jindal Piombino, Whirlpool, Embraco. Sono solo alcune delle 150 crisi aziendali rimaste nel limbo a causa della pandemia e con loro le sorti di 250mila lavoratori. Lo tsunami provocato dal Covid-19 ha fatto sì che l’attenzione si spostasse sul fronte dell’emergenza sanitaria, ma ora che la morsa del virus sembra essersi allentata, il rischio di una vera e propria emergenza sociale pronta ad esplodere è dietro l’angolo.
Le prime avvisaglie arrivano da Cornigliano, Genova, dallo stabilimento ex Ilva dove i lavoratori sono in agitazione già da venerdì dopo l’annuncio della cassaintegrazione per 200 di loro, a sole due settimane dal riavvio della linea di zincatura. Una retromarcia che rischia di essere il preludio del futuro della maggiore acciaieria europea, che in Italia cuba 10.700 lavoratori al netto delle migliaia dell’indotto.
In tutto questo il Governo sembra navigare a vista, senza una precisa strategia per approcciarsi alla delicata e complessa questione ex Ilva. Da ultimo, la mancata concessione ad ArcelorMittal della garanzia statale sul prestito bancario di 400milioni di euro che avrebbe dovuto essere inserita all’interno del decreto “rilancio” per far fronte alla crisi dei siti produttivi dell’azienda, non esenti dalle difficoltà legate all’emergenza sanitaria.
Dopo il niet del Governo, dovuto sia al ritardo della presentazione del piano di rilancio che alla mancanza di garanzie sulla volontà di rimanere, immediatamente 1000 avvisi di cassaintegrazione sono partiti alla volta di Taranto, sommandosi ai 200 di Cornigliano e ai 5mila già avviati, insieme allo stop di molti degli impianti pugliesi che seguono così la stessa sorte di Genova e Novi Ligure.
Il timore è che questa possa essere la goccia che rischia di far traboccare il vaso, con un ulteriore errore strategico che potrebbe compromettere in maniera definitiva la delicata trattativa che pareva essere arrivata ad una svolta ai primi di marzo con l’accordo tra il Governo e il gruppo franco-indiano per il rilancio dell’acciaieria. Complice l’emergenza sanitaria, da allora però la situazione è rimasta in stallo creando terreno fertile per la retromarcia di ArcelorMittal, che avrebbe così la giustificazione per abbandonare il Paese.
Dalla questione della cancellazione dello scudo penale fino alla clausola dell’accordo di marzo, che prevede una penale da 500milioni di euro per il ritiro del gruppo franco-indiano, sono gli esempi più lampanti di come non ci sia una vera strategia dietro alle scelte del Governo. Che persiste nel rimpallo delle competenze tra ministero dell’Economia e Mise, a sua volta nella nebbia più totale per la mancanza delle deleghe ai sottosegretari e per la compresenza ingombrante di figure e organismi deputati a prendere decisioni. Nel caos del “chi si occupa di che cosa”, l’unica ad avere la questione Ilva ben presente è Invitalia, l’agenzia nazionale per lo sviluppo di proprietà del ministero dell’Economia, che potrebbe rilevare una quota intorno al 40/45 % dell’acciaieria. Peccato che l’ad, Domenico Arcuri, sia impegnato su tutt’altro fronte, come commissario per l’emergenza sanitaria e che le divisioni sul fronte politico, con la maggioranza spaccata proprio sulla questione Ilva, non aiutino a far procedere il lavoro.
Nel frattempo è atteso per oggi il primo sciopero del post pandemia, con i lavoratori dello stabilimento di Cornegliano che si sono dati appuntamento, nel rispetto delle regole di distanziamento sociale con guanti e mascherine, davanti ai cancelli dell’azienda per riaccendere i riflettori su una situazione in stallo da troppo tempo. E che con ogni probabilità farà da apripista agli altri 250mila lavoratori delle crisi aziendali “in lockdown”, pronti ad affrontare la fase 2 dell’emergenza lavorativa.
Micol Mulè