Una città bio, eco, turistica, a km zero, startupper, senza manifattura, con negozi pagati al carato che vendono beni voluttuari a una internazionale di ricchi che, avendo tutto, possono permettersi di comprare il nulla: questa la narrazione degli ultimi dieci anni di Milano.
Una città fatua e di narrazione, in cui la forma ingloba tutto e lo digerisce. Fa sparire il povero espellendolo, cancella la borghesia operosa marginalizzandola. E sopravvive con spremute di ideologia e zenzero. Ci siamo illusi che questa Babele del nulla sarebbe durata per sempre. Il che, è abbastanza un cliché succede sempre con le Torri di Babele. Finché un fulmine chiamato Covid non ha abbattuto la nostra superbia. Altra cosa abbastanza comune, me lo dovrete concedere.
E l’esempio più caratteristico era l’ambizione che potessimo diventare una città turistica.
A fine Maggio, invece, eravamo tornati al numero di turisti di dieci anni fa. Quando eravamo una monotona città di industriosi lavoratori. L’ultimo anno di quei tre lustri che hanno edificato lo skyline di Milano (che è ancora là), proiettato la città in Europa (dove è tutt’ora) e gestito il passaggio da produzione a servizi la città (ovvero l’ultimo baluardo della produzione di valore). Poi sono arrivati Pisapia e Sala. Il primo ha ucciso l’idea della città severamente borghese e capitalista. Il secondo ha provato a trasformare le macerie in Disneyland.
Oggi, per tornare alle vette del post Expo, ci dice uno studio di Oxford Economics, ci vorranno cinque anni. E qui una domanda si impone: non è che, magari, possiamo cogliere l’opportunità? Il turismo che vorrebbe attirare il Comune per accelerare il trend è quello di prossimità. Il che è, oggettivamente, abbastanza difficile. E, soprattutto, ha un orizzonte di spesa e delle aspettative un filo diverse dai villeggianti di New York. Sapete come potremmo invogliare davvero Bresciani, Torinesi e Cremonesi a venire in città?
Con la produzione di valore. Facendo ripartire la manifattura, ad esempio. Da quella digitale a quella iperspecializzata. Milano non è solo narrazione: apericena, ha il potenziale per tornare il centro della produzione di frontiera. E la culla della consulenza, naturalmente. Una piazza, un mercato ed una porta di accesso all’Italia. Per far questo dobbiamo, però, cambiare la visione di futuro: meno leziosità e più concretezza. Chi costruisce non può, ogni volta, rifare mezza città. Per ogni unità abitativa/produttiva non è concepibile piantare cento acri di eucalipto per salvare i koala maculati.
Milano ha bisogno di rigenerarsi tornando a produrre. Il Comune deve essere l’apripista. Non si deve sostituire all’imprenditore, ma deve divenire il suo alleato. Deve spianare le strade, conciliare gli interessi e dare solidità. Invece di vantarsi di quanti monopattini ci saranno in città, spieghiamo quanto poco ci si mette ad aprire una attività. L’efficienza non misuriamola più in numero di parchi aperti, ma con il numero imprese che hanno iniziato ad operare in meno di 60 giorni. Insomma, avremo un futuro solo se saremo competitivi amministrativamente.
Sono cose piccole, forse. Ma è precisamente quello che ci si aspetta dalla capitale morale d’Italia: efficienza, attenzione alle imprese e al lavoro, soluzioni concrete nella jungla di leggi e normative. E magari qualche tocco più mediatico, perché no? E se aprissimo dei corsi riservati agli under 25 per l’apertura di una partita Iva? Con l’obiettivo di Milano 2025 capitale delle PI under 25? Essere concreti non significa rinunciare ai sogni, vuol dire averne di così forti da resistere alla più luminosa delle albe.
Luca Rampazzo