L’autunno del lavoro: il 30% dei lavoratori rimarrà in smart working
Le grandi aziende stanno già ripensando le strutture organizzative. Il presidente di Afol metropolitana: “Indispensabili accordi di contrattazione aziendale”.
Unica alternativa percorribile durante l’emergenza sanitaria, lo smart working è passato nel giro di pochi mesi da sperimentazione a modalità lavorativa consolidata per molte aziende, che ora stanno ripensando le proprie strutture organizzative alla luce della necessità di proroga di questo strumento.
All’interno di questo scenario sono soprattutto le grosse aziende a muoversi nella direzione di strutturare il lavoro a distanza, passando da un’organizzazione messa in campo nel modo più rapido possibile per rispondere alle mutate esigenze del contesto lavorativo, dettate dalla pandemia, ad un assetto più definito che comprenda specifici accordi con i dipendenti. Lo rende noto Maurizio Del Conte, docente di Diritto del lavoro presso la Bocconi e presidente di Afol metropolitana (Agenzia per la formazione e il lavoro, ndr), dalle pagine del Giorno, secondo il quale lo smart working potrebbe interessare un range compreso tra il 25 e il 30% dei lavoratori. In questo processo sarebbero le piccole imprese a rimanere indietro, penalizzate dalle difficoltà di dotarsi di una struttura organizzata.
Del Conte già lo scorso luglio si era espresso sull’argomento, ravvisando la necessità di arrivare a quello che definisce “smart working 2.0”, ovvero la fase evoluta del lavoro agile, una completa rivisitazione del modo di intendere il lavoro, che in questa prospettiva verrebbe valutato esclusivamente sulla base dei risultati, e per la quale si rendono indispensabili accordi di contrattazione aziendale. Anche perché dopo il largo utilizzo che finora si è fatto dello smart working, è improbabile che a pandemia passata possa tornare ad essere relegato a strumento di nicchia, basti pensare che dai 600mila lavoratori interessati dal lavoro agile nel 2019 – secondo le stime del Politecnico di Milano – ora si è raggiunta quota 8milioni.
Certamente non si può generalizzare, molto dipenderà dai settori che dovranno fare valutazioni su misura, ma già un colosso del calibro di Eni ha annunciato di rendere strutturale questa nuova modalità lavorativa per il 35% dei dipendenti, spiega Del Conte, e come Eni anche Pirelli e diversi gruppi bancari e afferenti al ramo finanziario stanno percorrendo questa strada. Una strada, però, costellata da non poche incognite che impatteranno inevitabilmente sul quadro economico complessivo. Una metropoli come Milano lo sta vivendo sulla sua pelle già da qualche mese, con la moria di locali e attività legate a doppio filo con i grandi centri direzionali, un esempio City Life, che stanno alzando bandiera bianca perché impossibilitati a reggere agli urti della crisi dovuta al perdurare dello smart working.
Non da ultimo vanno valutati anche i rischi legati alla cyber security, come ha avvertito Alessandro Profumo – ad di Leonardo – durante il suo intervento alla scorsa edizione del Meeting di Rimini, sul tema dell’implementazione tecnologica in ambito di lavoro agile e sull’adeguamento dei processi lavorativi dettati dalle nuove esigenze. “Lo smart working aumenta drammaticamente i rischi di sicurezza digitale perché la superficie attaccabile aumenta in modo spaventoso – aveva detto – Parliamo di connessioni a distanza delle nostre persone e tutte queste connessioni sono potenziali aree di attacco. Leonardo ripenserà i propri modelli lavorativi – è già stato calcolato che il 30% degli spazi sarà superfluo – ma si tratterà di una soluzione temporanea: “Abbiamo capito che è fondamentale non avere le persone permanentemente al lavoro a distanza, prima di diventare smart bisogna cambiare i processi di lavoro”.
Micol Mulè