Due parole sincere sulla riapertura delle scuole
Oggi suonerà la campanella tanto attesa, la riapertura della scuola. Ne abbiamo fatto, quasi unici al mondo, la linea del Piave della civiltà. Più concentrato di noi sul tema solo Trump. Il quale, però, deve difendere una narrativa contraria alla nostra. Ovvero che il Covid non era così brutto come lo dipingono tutti. Allora perché questa insistenza generalizzata? Per un problema atavico, esasperato dal lockdown e su cui nessuno vuol discutere seriamente.
Che ruolo ha la scuola nel nostro paese? Di sicuro non è un luogo cui i genitori associano primariamente l’apprendimento. Si parla di medie e rischiamo il pollo di Trilussa, ma il sogno di moltissimi, dalla prima settimana dopo la chiusura, è stato di riavere il luogo dove mandare il figlio. Non un posto dove il figlio potesse imparare. Perché il secondo luogo era reperibile anche digitalmente. No, ci voleva la struttura fisica dove lasciare il pargolo.
Come diceva una insegnante mia amica rispondendo ad un mio post, i docenti hanno imparato a fare didattica a distanza. Ma non babysitting online. E l’idea che qualcuno possa considerare questo secondo aspetto come preponderante non è peregrina. Eppure, visti gli esempi all’estero, non possiamo escludere che la speranza resterà frustrata. Chiunque abbia riaperto ha anche velocemente cominciato a richiudere. È inevitabile. Si scoprono casi e si cerca di evitare la bomba. A questo punto una domanda sorge spontanea.
Ma visto che la linea ufficiale era di mettere la sicurezza al primo posto, perché non stiamo potenziando la rete informatica ed abbiamo invece deciso di comprare banchi nuovi (e a rotelle in alcuni casi) per tutti? Perché, dopotutto, nemmeno il Governo ci crede, nella scuola. Il nostro sistema è visto come immodificabile, nemico ed ostile. Quindi o lo si combatte o ci si arrende. E quasi tutti, alla fine, scelgono la seconda.
C’è uno squilibrio di 20 mila docenti da Sud a Nord, squilibrio che con la digitalizzazione delle AULE (non della didattica) delle AULE, sparirebbe. Il docente insegnerebbe da casa ed i ragazzi verrebbero sorvegliati in loco dal personale Ata. Tac. Risolto un problema di immigrazione interna lungo 150 anni. Credete che qualcuno ci abbia pensato? Ovviamente per nulla. Se sei iscritto nella graduatoria di Napoli, a Napoli devi restare. E a differenza di Jumanji questo stato di cose non cambia nemmeno con un 5 o un 8.
Questo perché, di fondo, la forma è più importante della sostanza. Non ci interessa che i ragazzi imparino (sì, sto generalizzando ancora, chiedo venia), come lo facciano o a cosa possano aspirare. L’importante è che entrino in aula, ci restino, escano ad orari prestabiliti e chiudano con un pezzo di carta che gli apra la strada verso il sogno segreto di ogni nonna: il posto pubblico. Una nazione con questa premessa, non progredisce. E, temo, non possa resistere nemmeno a lungo.
Comunque domani è un altro giorno. Suonerà di nuovo la campana. E quando suona la campana tu non domandarti per chi suoni. Domandati piuttosto perché, nel 2020, la devi ancora pagare quella stramaledetta campanella. Io, di sicuro lo farò. E voi?
Luca Rampazzo