Reddito di cittadinanza: la deriva del welfare
Se non fosse vero sembrerebbe una barzelletta: da quando è stato introdotto il reddito di cittadinanza (RDC) i poveri sono aumentati. Strano, ma vero. Nell’ultimo decennio la spesa a carico dello Stato per il sostegno alla povertà è aumentata da 74 a 114 miliardi; nello stesso periodo il numero di persone sotto la soglia minima di sopravvivenza è passata da 2,5 a 5,6 milioni di persone. A evidenziarlo è lo studio condotto dall’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (ANPAL), il braccio operativo del governo in tema di occupazione.
I dati sono impietosi, pur considerando le congiunture sfavorevoli determinate dalla crisi finanziaria del 2008, dalla quale l’Italia si è ripresa più lentamente di altri Paesi, e dalla pandemia degli ultimi 18 mesi.
Questi numeri sono destinati ad infiammare il dibattito politico che in queste settimane ha riproposto l’annosa questione su costi e benefici dello strumento introdotto dal Movimento 5 Stelle tre anni fa.
La spesa cresce, i poveri pure: cosa non funziona?
Il dibattito sulla riforma del reddito di cittadinanza divide i partiti. Ma un intervento è necessario, tenendo conto degli effetti prodotti in questi tre anni e della presenza di altre misure di welfare talvolta assai più efficaci.
Il Reddito di cittadinanza va abolito, riformato, mantenuto o ampliato? Ma soprattutto, le forze politiche di un governo di larghe intese saranno in grado di valutare soluzioni efficaci liberandosi dal fardello ideologico e propagandistico teso al consenso più che al bene comune?
Non si discute il fatto di attuare politiche di welfare utili a contrastare la povertà, ma occorre partire dalla realtà dei numeri. I quali sono impietosi, come dimostra la recente ricerca Istat, dalla quale emerge tutta la portata dell’effetto covid sulle condizioni degli italiani, con una cifra record di 5,6 milioni di persone che nel 2020 vivono in condizioni di povertà assoluta, quasi un italiano su dieci.
Chi sostiene il RDC ritiene che le misure e le risorse adottate per contrastare gli effetti della pandemia non siano state adeguate e vorrebbero aumentarne le risorse economiche; per contro, chi ritiene il RDC uno strumento assistenzialistico e uno spreco di risorse non adatto allo scopo, evidenzia come il numero dei poveri sia aumentato di 1 milione, nonostante i 16 miliardi distribuiti ad oltre 2 milioni di famiglie (pari a 4,5 milioni di persone) a partire dall’aprile del 2019. Nel computo del costo sociale complessivo occorre considerare anche l’introduzione del Reddito di emergenza che ha allargato la platea dei beneficiari nel corso della crisi Covid.
Il report Anpal, pubblicato a fine 2020, evidenzia, sulla base del monitoraggio dei dati Inps, che coloro che hanno beneficiato del reddito hanno ovviamente migliorato la loro condizione economica, ma – come evidenzia il rapporto Caritas sulla povertà – il 36% dei percettori, per buona parte singole persone, ha beneficiato dei sostegni senza averne i requisiti, mentre un 40% dei poveri, soprattutto le famiglie più numerose, non ne ha usufruito o lo ha potuto fare in modo ridotto rispetto ai bisogni.
Ma questa non è l’unica distorsione: il RDC è stato usato per il 45% da nuclei di una sola persona e per il 60% residenti nelle aree del Mezzogiorno, dove le domande accolte sono state addirittura superiori alle stime delle persone povere effettuata dall’Istat. Al contrario, solo una famiglia su quattro residente al Nord ha potuto beneficiare dell’assegno statale e rappresenta un terzo dei poveri rilevati dall’Istituto nazionale di statistica.
Per esigenze di brevità non consideriamo in dettaglio l’accesso al reddito di cittadinanza da parte di immigrati residenti, che – a solo titolo di esempio – hanno beneficiato del contributo anche per i figli residenti nei paesi di origine.
Gli esperti considerano questi esiti come il frutto dei meccanismi distorti contenuti nel provvedimento originale. Idem dicasi per le famiglie numerose, penalizzate dai criteri adottati per erogare il sussidio statale.
Anche la differenza del costo della vita tra Nord e Sud del Paese non è stato preso in considerazione nell’erogazione del contributo, differenziandone arbitrariamente, nella pratica, il potere d’acquisto reale delle famiglie beneficiarie.
E’ del tutto evidente, da quanto emerge dal rapporto, che il RDC nasce come proposta propagandistica promessa in campagna elettorale dal M5S verso un target preciso di elettori.
L’altro elemento indicativo del fallimento dello strumento riguarda l’effetto sull’occupazione.
I beneficiari del RDC in età da lavoro hanno sottoscritto un patto all’atto dell’erogazione che li impegnava a partecipare a percorsi formativi funzionali al reimpiego. Ma la formula adottata dal legislatore prevede l’obbligo solo in caso di assunzione a tempo indeterminato (pura utopia) non inferiore a 858 euro mensili, escludendo di fatto lavori a termine e contratti part time.
Inoltre, consente loro di poter rifiutare le prime due offerte di lavoro continuando a beneficiare dell’assegno pubblico.
Non serve essere esperti del mercato del lavoro per capire che il Reddito di cittadinanza sia disincentivante per la ricerca di un nuovo lavoro e risponda a mere logiche di creazione del consenso.
Dati questi presupposti, non è difficile trovare argomenti validi per mettere in discussione il proseguimento di questo strumento.
Come proposto da Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera, si potrebbe ipotizzare di ridurre il sussidio di base del RDC per le persone singole e aumentarlo per le famiglie numerose sulla base dei carichi reali, differenziando i criteri di valutazione del reddito e del patrimonio per accedere ai benefici, e degli importi degli assegni, in relazione al costo della vita dei territori di appartenenza.
Quello che proprio non ha funzionato è la parte relativa alle politiche attive del RDC, cioè le azioni e i percorsi di reinserimento lavorativo.
Ora che oltre al RDC il Governo ha introdotto altri strumenti, come l’assegno unico per i minori per le famiglie fiscalmente incapienti (comprese quelle degli immigrati regolarmente residenti) e il Reddito di emergenza, tuttora in vigore, che ha ampliato i criteri di reddito, patrimoniali e di residenza per l’accesso ai provvedimenti.
Inutile sottolineare la necessità di far seguito all’autocertificazione della situazione reddituale e patrimoniale un’accurata verifica per evitare illeciti in quantità industriale.
Una considerazione finale. Il governo, con la riforma dei sostegni al reddito, si accinge a iniettare risorse aggiuntive per almeno 8 miliardi di euro, due dei quali andranno impiegati per il reddito di cittadinanza, evidenziando una consolidata tendenza a incrementare la spesa pubblica senza criteri adeguati e un uso coordinato e funzionale degli strumenti di sostegno contro la disoccupazione e la povertà.
Come se gli italiani fossero voti da comprare con un sussidio a sbafo e non un popolo abituato a fare fatica per guadagnarsi il proprio benessere.
Pietro Broccanello