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    Il coraggio di chiedere scusa. Noi i “boomers” e i “millenials”

    Il coraggio di chiedere scusa. Noi i “boomers” e i “millenials”
    Il prossimo 2 ottobre l’appuntamento con l’economia solidale e crescita condivisa lanciata da Papa Francesco, ci obbliga ad una più ampia riflessione su quanto è diventato ampio il divario tra la classe alla quale appartengo, i boomers, e quella dei millennials che vivono tutta la difficoltà dei costruire il loro futuro in un periodo di recessione economica.
    Le radici di questo gap sono da ricercare in quei primi anni 90 dove sotto la spinta della identità europea espressa con il tentativo di arrivare ad una Costituzione europea che superasse il senso di identità degli Stati membri, abbiamo pensato che prima di tutto eravamo cittadini europei e poi cittadini dello Stato membro. Un pensiero progettuale che ha una sua forza propulsiva dirompente ma che si è scontrata con quella identità statuale (prima il mio Paese e poi l’Europa) prevalente ed è non naufragata miseramente ma accantonata per il momento. Ebbene in quegli anni noi non abbiamo avuto la capacità critica di elaborare un piano strategico alternativo in caso di fallimento dell’identità europea.
    Così noi per primi fideisticamente e i nostri giovani figli a seguire, allora in età scolare, abbiamo continuato a costruire il futuro pensando che l’ascensore sociale tutto fatto sull’istruzione, più alta possibile, sarebbe stato lo stesso che ha costruito il nostro futuro. Non per cattiva coscienza ma per non aver saputo leggere i segnali che indicavano a breve un fermo di quell’ascensore sociale dovremmo chiedere scusa ai “millennials”. Ed invece, ciechi al nostro stesso fallo ed orgogliosi di quella capacità di essere classe dirigente e che invece dovremmo umilmente rivedere, li accusiamo di inedia e di incapacità di inventarsi una “vita realizzata” sul nostro modello. Ed abbiamo anche pensato che se il nostro Paese non avrebbe potuto trovare loro quel futuro realizzato lo avrebbe fatto l’Europa, quell’Europa degli Stati dove a migliaia abbiamo mandato i nostri ragazzi a studiare e a fare esperienza lavorativa. Ma l’Europa degli Stati si è rivelata matrigna e ci ha rimandato indietro i nostri ragazzi o li ha trattenuti per sempre. Così per noi è accaduto l’impensabile: la fuga dei cervelli (i migliori dei nostri ragazzi) e il ritorno di giovani altamente specializzati ai quali non possiamo offrire quella giusta occupazione ma che sotto-occupiamo e sotto-paghiamo, relegandoli ad una posizione di precariato ed incertezza che mina la loro stessa dignità di persone.
    Non era questo che avremmo voluto per i nostri figli quando li accompagnavamo fuori la scuola alle 8.00 e andavamo a riprenderli alle 16.00 (il famoso e sciagurato per certi versi tempo pieno); non immaginavamo neanche lontanamente che quando la crisi economica ci avrebbe colpito di lì a qualche anno, sarebbero stati i nostri genitori a sostenere il loro precario futuro. La pensione dei nostri genitori si è traferita ai nostri figli sostenendoli lì dove noi non ce l’avremmo fatta e proprio in quegli studi superiori che ora non possiamo più garantire. L’abbandono scolastico nelle classi della scuola dell’obbligo è un dato (al 30% nel Sud del Paese) che non vedevamo dal dopoguerra del 1950 quando avevamo il 60% della popolazione adulta analfabeta. Ed ora che l’impensabile si è realizzato, questi giovani adulti con una istruzione ridotta all’osso o del tutto assente, quale futuro potranno disegnare per sé stessi? E lì dove i nonni non c’erano, lì in quel tessuto sociale ridotto fatto di noi e i figli, il futuro è diventato una ricerca affannosa, scoraggiante, deprimente e depressiva.
    Quei nostri figli che sono andati all’estero ed hanno avuto il loro futuro, con molta probabilità non torneranno da noi, né le nostre “sirene” per un ragionato felice rientro possono catturare chi ha di tutta evidenza visto che il nostro tessuto sociale si è sfilacciato, ed ora che li rivorremmo, essi ci rispondono no; hanno costruito la loro vita lì dove noi li abbiamo andati a farlo perché dunque tornare da noi?
    Ecco perché dovremmo chiedere scusa come classe dirigente “boomers”, per essere stati miopi e troppo fiduciosi in un “futuro illuminato dal progresso” che non abbiamo saputo disegnare, e nello stesso tempo aver l’umiltà di rimboccarsi le maniche, lavorare, pensare, agire perché i “millennials” abbiamo piena dignità di persona adesso, qui ed ora. Se non facciamo questo, e glielo dobbiamo, il gap che abbiamo prodotto è destinato ad ampliarsi, poiché non potendosi creare una “famiglia” i nuclei familiari da uno a due componenti sono destinati a durare fino al termine naturale, ovvero per i prossimi quattro decenni, come i dati del decremento demografico nel Paese mostrano chiaramente poiché noncompensati dall’ingresso di genti di altre culture.
    L’economia solidale e crescita ragionata ha il suo cardine nella condivisione delle risorse tra le generazioni presenti e future,anzi più propriamente la condivisione presente garantisce il futuro degli altri ed ha un arco temporale che in economia si definisce medio ovvero superiore ai 10 anni. Un primo elemento rivoluzionario è tutto intellettuale: costringe una società tutta piegata sull’arco temporale di un anno, considerando addirittura un triennio come una proiezione azzardata, a ragionare in termini di generazioni che si alternano nella gestione economica e sociale del mondo. E qui tutto il suo carattere dirompente si evidenzia perché la generazione al governo del mondo è la mia (boomers) e quella che mi ha preceduto (zii e cugini più grandi se vogliamo famigliarizzarla) i quali si pensano infiniti ed eterni e continuano a modellare la società secondo i propri parametri. Un secondo elemento rivoluzionario è quello del conteggio delle risorse del pianeta poiché anche esse non sono infinite e la misurazione dei ritmi del consumo indica anche quanto è vicino o lontano il futuro dell’umanità stessa. Un terzo elemento rivoluzionaria è della ricerca condivisa da quasi tutta la società nelle soluzioni possibili per garantire un presente e un futuro che superi abbondantemente l’arco temporale dei 100 anni.
    Allora torniamo alla questione dirimente in questo secolo: senza un lavoro degno non c’è la dignità della persona; senza la dignità della persona non c’è un futuro. Dovremmo gioco forza ammettere amaramente che abbiamo tolto la dignità ai nostri figli relegandoli nel precariato e conseguentementeobbligarci a disegnare con loro politiche economiche e di mercato del lavoro in cui la dignità viaggia insieme all’occupazione. Ma noi, purtroppo, continuiamo a progettare inclusioni nel mercato del lavoro scorporate dalla dignità della persona per la quale sembra non abbiamo alcun interesse. Così come, avendo fatto saltare il modello di welfare anni ’80 sul quale avevamo costruito il nostro futuro, non siamo in grado di progettare un modello per un’uscita dal mondo del lavoroche sia dignitosa considerato il prolungamento dell’aspettativa di vita. Poiché quello che è andato perso nell’economia è lostesso senso etimologico: oikonomiae = norme della casa (oikos) e di conseguenza per via analogica le norme della casa di tutti noi. Una casa senza persone è una casa disabitata, un non luogo economico. Perché dunque ci ostiniamo a progettare, parlare, ragionare e discutere per una “economia” che non ha al suo centro la persona? Se solo volessimo ragionare nel Paese su questo, ascoltando i “millennials”, progettando con loro il loro futuro (ahimè alla soglia dei loro quarant’anni) e il nostro di nonni, potremmo raccontare che sì abbiamo sbagliato ma un “pezza” l’abbiamo messa insieme e di questo essere entrambi orgogliosi.
    Elisabetta Campus

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