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    Il paradosso del centro che cerca sé stesso

    Il paradosso del centro che cerca sé stesso.
    Questa tornata elettorale con un elettore su due a casa, porta in evidenza che l’offerta politica nel Paese non è stata gradita, appetibile per dirla con linguaggio della comunicazione, e quindi tanto vale dedicarsi ad altro. Se da questo fatto la riflessione di queste ore si concentra tra il mea culpa nello schieramento a destra e un gloria da parte della sinistra, da sempre con un elettorato affezionato, che garantisce la vittoria anche ad astensione diffusa, c’è da chiedersi cosa faccia il centro. E da qui il paradosso del centro che cerca sé stesso. Perché, e la geometria insegna, il centro non definisce sé stesso, sono le posizioni a lato di esso che lo definiscono come centro. Così in politica si è a sinistra o a destra rispetto ad uno schieramento di centro proprio in virtù del posizionamento “geometrico” che viene applicato. Ma la questione nel nostro Paese è che da almeno vent’anni il centro non c’è, è alla ricerca di sé stesso convinto che la sua esistenza possa essere determinata dalla definizione che egli da di sé, dimenticando che la definizione di centro la danno gli altri che si posizionano accanto a lui.  Così smarrita la propria identità, e con essa la percezione geometrica del posizionamento nello spazio, il centro oscilla tra le due posizioni degli altri, dimentico che proprio l’essere centro comporta una “certa fissità”; il centro è un punto, uno spazio, definito e fermo, se no è o destra o sinistra.
    L’astensionismo diffuso di questa ultima tornata elettorale dimostra che non si riesce a scegliere adeguatamente uno schieramento se non è chiaro e definito lo schieramento centrale; con buona pace di coloro che per anni hanno dichiarato l’inutilità del centro in politica e spinto per il bipolarismo facendo scegliere gli elettori tra gli opposti. Perché nessuno preferisce una scelta che non riesce a bilanciare le posizioni (bianco/nero) preferendo una scelta più ampia soprattutto se alternativa. Dunque, molto dentro nelle possibilità umane, tra i due piatti di una bilancia, spesso si guarda all’ago al centro che misura l’angolazione o l’equilibrio dei piatti stessi e da questo sguardo si comprende meglio le due posizioni o ancora più acutamente se la bilancia non “misura” correttamente.  In questo ultimo decennio abbiamo privato il Paese della possibilità di misurare con il centro la distanza che intercorre tra le due posizioni antagoniste, anzi favorendo una sovrapposizione delle singole sfumature che non ha giovato alla comprensione delle scelte politiche e degli indirizzi per il futuro del Paese. >E non abbiamo percepito che senza ago centrale il Paese non è in equilibrio, anzi è un pendolo di Foucault oscillante ma senza il fulcro, si percepisce il movimento oscillatorio ma non si vede il punto di ancoraggio. Un non esset così come è la nostra vita politica in questo decennio, si sale, si scende, si risale, si ridiscende, in un infinito movimento oscillatorio che anche il più paziente degli elettori avrebbe a noia. Gioco forza nella indeterminatezza della scelta da fare e nella impossibilità di avere uno strumento di misura, occuparsi di altro o semplicemente osservare e non partecipare è stata la scelta di un italiano su due. Non è dunque dichiarando che abbiamo ripreso “la sintonia con il Paese”, né mortificandosi per averla persa, che si può riportare quell’italiano alle urne, perché il compito non spetta a queste forze politiche ma al centro; a quel centro atomizzato che cerca sé stesso non sapendo di esserlo.
    Elisabetta Campus
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