Intervista a Mario Rossi sulla riforma del Sistema Sanitario
Abbiamo intervistato Mario Rossi, già consigliere regionale e segretario della commissione sanità del Veneto dal 1995 al 2005, tuttora impegnato nello studio dei sistemi sanitari, per chiedere il suo pensiero in merito ad una possibile riforma del Sistema Sanitario Nazionale.
Confermo l’urgenza di riformare il SSN, ma per realizzare una buona riforma bisogna che la politica maturi una linea culturale chiara e diversa da quella attuale.
Quale?
Per superare il modello statalista e spiazzare coloro che cercano di sfruttare il mondo della salute per arricchirsi o conquistare il potere, bisogna rafforzare il potere di indirizzo e di controllo in capo allo Stato e allo stesso tempo riformare il SSN in coerenza con il principio di sussidiarietà.
Che significa in concreto?
Rafforzare il potere di indirizzo e di controllo dello Stato non significa scegliere un modello statalista, ma progettarlo in modo tale da renderlo capace di responsabilizzare la società civile organizzata nel compito che per natura le compete.
Non c’è il rischio che il sistema prediliga il privato?
Anzitutto non è detto che il privato sia sempre capace di gestire meglio di un altro soggetto ogni servizio e che gli si debba concedere ciò che vuole. C’è bisogno di un arbitro.
Chi sarebbe?
Lo Stato, definendo bene le regole di ogni suo intervento.
Quali funzioni attribuirebbe all’organo terzo?
In accordo con la Conferenza Stato Regioni, la comunità scientifica e i rappresentanti delle categorie sociali, l’apparato dello Stato dovrebbe rilevare i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), programmare i servizi, definire gli standard di qualità e le modalità di accreditamento di ogni servizio, indire e controllare ogni concorso pubblico, pagare il costo di ogni gestione solo se resa in modo conforme agli standard approvati dallo Stato stesso.
Controllo anche di ogni gestione diretta regionale?
Certamente per quanto concerne la qualità, l’efficacia e l’appropriatezza di ogni prestazione, indipendentemente dal soggetto gestore.
Quando dovrebbe intervenire la gestione diretta regionale?
Quando la società civile organizzata non volesse o non fosse in grado di gestire un servizio di pubblica utilità. Essere capaci significa che il privato deve saper dimostrare (con tanto di fideiussione messa in anticipo sul tavolo) di saper svolgere un servizio nel rispetto degli standard gestionali e di qualità fissati dall’organo terzo (dall’arbitro).
Se ho ben capito lo Stato tramite appalto dovrebbe offrire al privato la gestione di un servizio pubblico; nel caso in cui quest’ultimo non fosse in grado di espletarlo subentrerebbe la regione con una propria gestione diretta.
Esatto e con questo vincolo: ogni gestione diretta regionale dovrà rispettare gli stessi parametri e standard stabiliti dallo Stato.
Oggi molti parametri sono invece stabiliti dalla regione.
Creando un grave cortocircuito.
Ovvero quale? Potrebbe chiarirlo meglio?
Oggi la regione programma, controlla, accredita e in molti casi gestisce direttamente la maggior parte dei servizi sanitari. In definitiva la regione verifica se stessa e nella misura in cui vuole può accreditare perfino chi fra i privati le è più… simpatico. Inoltre essa è consapevole che ogni suo debito sarà ripianato dallo Stato. In tal modo il sistema è autoreferenziale, controlla se stesso, indebita il paese, mortifica l’iniziativa dei soggetti privati, ed espone oltre misura l’amministratore regionale. Se manca l’arbitro o sediventa un giocatore in campo, il sistema si corrompe o quantomeno risulta dispendioso e inefficiente. Ed è quanto accade.
Ma non è pericoloso attribuire troppo potere allo Stato?
Nel modello di riforma pensata alla luce della sussidiarietà l’arbitro non ha poteri assoluti e non meno di quanti ne abbia adesso. Peraltro ogni suo atto deve essere attuato a norma di legge. Il parlamento ha quindi la prima ed ultima parola affinché ogni atto dell’organo terzo sia conforme alla costituzione. Va salvaguardato l’equilibrio di poteri su cui si fonda la Repubblica, mentre oggi un “governatore” ha troppo potere, al punto da decidere indirettamente la nomina di ogni dirigente di struttura complessa ASL. Non a caso sono stato promotore di una proposta di legge, parzialmente accolta, finalizzata a rendere più stringente la selezione dei cosiddetti “primari”.
Per quanto concerne la dotazione ospedaliera lo Stato quanti posti letto dovrebbe stanziare?
Almeno 4 posti letto per mille abitanti, di cui 1 p.l. destinato alla riabilitazione e alle RSA. Oggi la dotazione di ogni regione è inferiore e si rilevano divari inaccettabili fra regioni stesse. Il cittadino in caso di bisogno deve poter accedere ad una struttura per acuti entro 25 minuti dalla segnalazione di un suo evento acuto ed essere preso in consegna prima di questo tempo, dalla rete di emergenza pubblica. Diversamente il rischio che egli muoia è molto elevato. Ora, verifichi in quante regioni questo parametro è rispettato.
Perché quel cittadino deve raggiungere una struttura per acuti?
Se il sistema di emergenza riceve una segnalazione che Tizio ha subìto un incidente stradale ed ha dolori al ventre, al capo, allo sterno è evidente che l’infortunato debba raggiungere ilprima possibile una struttura per acuti nella quale, per definizione, sono attive le più alte specialità. Poiché queste strutture non possono essere realizzate in ogni comune, la programmazione salverà il maggior numero di vite umane quando riuscirà ad attivare nel territorio poche strutture per acuti raggiunte entro 25 minuti da chi abbia urgente ed effettivo bisogno. Scendere sotto 3 p.l. ogni mille abitanti destinati ad ospedali per acuti significa perdere molte vite umane. Da anni la dotazione di posti letto per regione diminuisce oltre misura e nessuno interviene. Inoltre, la programmazione regionale, essendo troppo vicina ai cittadini, fatica ad ubicare correttamente le strutture per acuti nei bacini di utenza. Il motivo di questa difficoltà lei lo comprende benissimo.
Può documentare qualche indice di dotazione ospedaliera?
Nel 2008 il totale dei posti letto accreditati fra sistema regionale a diretta gestione e il privato erano 210.097, ovvero il 3,48% della popolazione, nel 2017 erano 209.959 (il 3,50%) e si tende a farli calare, accentuando oltre misura la questione della medicina territoriale. Ci sono regioni in cui la carenza di dotazione è impressionante. In Calabria la percentuale è da anni inferiore a 2 p.l. per mille abitanti.
La mobilità attiva della Lombardia nel 2018 era di 808,7 milioni di euro, Emilia e Romagna 357,9, Toscana 148,3, Veneto 161,4. Molti plaudono per l’offerta di attrazione di queste regioni, mentre non si pone il problema di dare a tutte le regioni un parametro equilibrato di posti letto rispetto al fabbisogno reale.
Inoltre?
Nessuno si chiede come le regioni con un tasso elevato di mobilità attiva siano riuscite ad impegnare i propri posti letto ospedalieri per assistere pazienti di altre regioni. Mi risulta che a queste regioni non sia stato concesso più di 3,8 p.l. ogni mille abitanti. Già riflettendo su questo dato si comprende perché i lombardi non abbiano potuto garantire idonea riabilitazione, con riflessi negativi sulle malattie croniche emedicina territoriale.
Ma non è stato lei fra i primi impegnati nellarazionalizzazione della dotazione ospedaliera veneta?
Confermo. Fino agli anni ‘90 era senz’altro indispensabile adeguare il numero dei posti letto alle esigenze effettive di ogni bacino di utenza regionale. All’epoca la dotazione di varie regioni era ben superiore a 4 p.l. per mille abitanti, quindi eccedente rispetto al fabbisogno reale. Se a quel tempo ridurre la dotazione ospedaliera era doveroso (spiegando ai cittadini quanto fosse inappropriato rivolgersi all’ospedale per cure che avrebbero potuto essere eseguite nel territorio), ora rilevo il pericolo opposto.
Quale sarebbe il rischio opposto?
Far credere che il territorio possa rispondere al fabbisogno di salute molto di più di quanto esso possa fare. Sono stato fra i primi a sottolineare il deficit di medicina territoriale di varie regioni (anche in quella lombarda) ma non ho timore a dirle che vedo una grave involuzione ovunque, anche nel c.d. “modello veneto”. Il territorio funziona se la rete ospedaliera per acuti e riabilitativa, le RSA e la rete dell’emergenza sono programmati, strutturati e organizzati in modo tale da garantire una risposta efficace al bisogno di salute di un determinato bacino di utenza.
Può elencare alcune criticità a riguardo?
Consiglio di verificare quanti cittadini non sono iscritti ad un medico di base, quante ambulanze circolano giorno e notte in ogni provincia rispetto a quelle che dovrebbero esserci e quante di esse hanno un medico a bordo, i tempi con i quali il cittadino può raggiungere una struttura per acuti (lo ribadisco, non dovrebbero essere superiori a 25 minuti), in quale territorio il medico di base opera effettivamente in rete con il pediatra di libera professione, con l’infermiere e con gli altri professionisti, con quali mezzi si muove ed opera lo specialista delle cure palliative e le situazioni che trova nelle abitazioni, quanti comitati etici funzionano realmente e sono tempestivamente di aiuto alle strutture che, a seguito della Sentenza della Corte Costituzionale (n. 242/2019) sul suicidio assistito, dovrebbero illuminare se la cura ad un paziente terminale sia o meno accanimento terapeutico, quante esternalizzazioni compiute ad ogni livello sono effettivamente necessarie e quali siano le tariffe praticate. Colpisce peraltro un fatto eclatante.
Quale?
Rilevo professionisti assunti da cooperative sorte e accreditate come funghi e che lavorano nei reparti a diretta gestione regionale, senza essere stati selezionati con concorso pubblico (le porto ad es. quanto avviene negli ospedali a diretta gestione regionale veneta di Villafranca, Bussolengo e Legnago). Ci mancava solo l’ospedale di comunità.
Cosa intende?
L’ospedale di comunità avrebbe l’obiettivo di rispondere all’esigenza di terapie domiciliari mentre invece per esami diagnostici minimi e di base (es. una semplice lastra) il paziente viene trasferito nelle strutte per acuti. Diciamo le cose come stanno: non imbrogliamo la gente facendo credere che è possibile aprire un pronto soccorso o un ospedale nei paesi per raccattare voti. È ben noto che sono stato un consigliere che si era più volte imposto al proprio presidente di Regione (Galan) ma almeno Giancarlo ebbe il coraggio di chiudere ospedali dove non servivano, di attivare i Pronto Soccorso solo negli ospedali per acuti (diversamente la gente muore!) e punti di pronto intervento in quelli riabilitativi, di organizzare il territorio in dipartimenti efficienti e capaci di garantire un’assistenza domiciliare efficace. Oggi il populismo e le esternalizzazioni improprie superano quelle barriere che solo un nuovo arbitro dovrebbe saper finalmente imporre. Si riaprono con tabella da ospedale strutture che non avevano senso ad essere riaperte, illudendo i cittadini. Infine si abbia il coraggio di affrontare la questione delle malattie croniche.
Quale questione?
Una malattia è cronica quando presenta sintomi che non si risolvono nel tempo né giungono a miglioramento. Ad essa si accompagna un lento e progressivo declino delle normali funzioni fisiologiche. Più di un italiano su tre è affetto da una patologia cronica, uno su cinque da due o più. Queste patologie sono la causa principale di morte. La cura di questa malattia impegna l’80% della spesa sanitaria italiana.