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    Semipresidenzialismo…all’italiana? Dilemmi dei prossimi mesi.

    Semipresidenzialismo…all’italiana? Dilemmi dei prossimi mesi.

    Con una certa regolarità in Italia si torna a parlare di presidenzialismo o semipresidenzialismo. Un politico di rilievo della Lega aveva qualche tempo fa ipotizzato di eleggere Draghi al Quirinale per realizzare di fatto un “semipresidenzialismo all’italiana”. Dal fronte di Fratelli d’Italia si ripete che il presidenzialismo (ma forse si vorrebbe dire semipresidenzialismo?) sarebbe l’opzione da adottare. In genere, quando si parla di semipresidenzialismo si pensa all’esperienza francese e si auspica quanto meno l’elezione diretta del presidente della Repubblica o comunque si vorrebbero attribuire al capo dello stato poteri di indirizzo politico significativi. Ora, l’avvicinarsi dell’elezione del nostro capo dello stato suggerisce qualche riflessione sul suo ruolo nella complessa vita politica italiana e sulla scelta che ci attende.

    Intanto chiariamo la differenza tra presidenzialismo e semi-presidenzialismo. Entrambi comportano l’elezione diretta del capo dello stato, ma nel caso del primo il Presidente è anche il solo vertice dell’esecutivo. Nel secondo invece è presente anche un presidente del consiglio dei ministri. Aggiungiamo che il primo modello, esemplificato dagli Stati Uniti, ma anche da gran parte dei paesi dell’America latina, toglie al Parlamento il potere di sfiduciare il Capo dello Stato (se non per via giudiziaria, o impeachment) e al capo dello Stato di sciogliere il parlamento, realizzando così una netta separazione tra i due poteri. A coloro che parlano di questo modello ricordiamo che, come insegna il caso statunitense, il potere del Presidente è poi fortemente limitato (in sede legislativa) da un Congresso (il parlamento) nettamente autonomo e che può esprimere maggioranze opposte. Nei fatti il presidente può essere tutt’altro che onnipotente.

    Torniamo invece al semipresidenzialismo al quale in genere si pensa. Ricordiamo per chiarezza che l’elezione diretta del presidente avviene in un gran numero di paesi europei: oltre alla Francia, l’Austria, la Bulgaria, la Croazia, la Finlandia, l’Irlanda, l’Islanda, la Lituania, la Polonia, il Portogallo, la Repubblica ceca, la Romania, la Slovenia, la Slovacchia…. Ebbene, tra tutti questi paesi in pratica solo la Francia funziona veramente secondo il modello che in Italia ci si immagina, cioè con un Presidente della Repubblica che è la guida politica del paese. Dunque la Francia è l’eccezione più che la norma! Come mai? Il punto merita di essere chiarito per i nostri aspiranti riformatori. Qualcuno dirà che tutto sta nei poteri stabiliti nelle rispettive costituzioni. In realtà il ruolo politico del Presidente deriva dalla conformazione del sistema politico-partitico e probabilmente anche da come il modello “è partito” all’inizio e poi si è sviluppato. Il caso francese insegna: la “trazione presidenziale” è stata costruita all’origine grazie alla figura politicamente dominante di De Gaulle, alla grave crisi originaria dei partiti francesi e al fatto che questi sono stati nel tempo costruiti e ricostruiti intorno alle ambizioni e prospettive presidenzialiste di una serie di leader politici. Da De Gaulle a Mitterrand a Macron i leader hanno plasmato i partiti piuttosto che il contrario. In altri paesi cosiddetti “semipresidenzialisti” i partiti, più solidi, e i loro leader hanno preferito giocare la loro partita (spesso anche per esigenze di coalizione) in parlamento e quindi hanno lasciato le elezioni presidenziali a figure politiche meno importanti.

    Conviene però ricordare che anche il caso francese ha presentato in passato situazioni nelle quali il Presidente si è trovato a che fare con una maggioranza parlamentare di colore opposto, oppure con un una maggioranza che non domina completamente. La saggezza dei presidenti Mitterrand e Chirac e la loro disponibilità a lasciare spazio ai primi ministri hanno consentito coabitazioni relativamente tranquille con un governo di diverso orientamento politico. In altri paesi europei presidenti con ambizioni politiche mal controllate si sono trovati impegnati in conflitti istituzionali con governi che si rifacevano a maggioranze parlamentari antagoniste.

    In sintesi dunque e pensando anche ai nostri “riformatori” possiamo fissare questi punti: a. introdurre l’elezione diretta del presidente non garantisce un “semipresidenzialismo alla francese” se non ci sono le stesse peculiari condizioni favorevoli; b. esiste la possibilità tutt’altro che remota che tra un presidente eletto direttamente e un capo del governo espresso dalle elezioni parlamentari si inneschino tensioni e conflitti se le due parti non hanno la saggezza di accettare una convivenza politica concordata; c. in molti casi poi il “semipresidenzialismo” funziona come un parlamentarismo classico con l’unica differenza (poco rilevante) che il Presidente è eletto dai cittadini e non dal Parlamento.

    Le ragioni per intraprendere la sempre complicata e spesso conflittuale strada di una riforma costituzionale sembrano quindi molto ridotte, tanto più che in Italia la Presidenza della Repubblica, anche se eletta indirettamente, ha svolto un ruolo non irrilevante e generalmente positivo nella vita politica utilizzando semplicemente i principali poteri riconosciuti dalla Costituzione, cioè il potere di nomina del capo del governo, quello di nomina dei ministri e quello di rinvio al parlamento delle leggi. Soprattutto occorre notare che se questi poteri sono rimasti formalmente invariati nel tempo è variata invece a seconda delle situazioni la pregnanza politica del loro impiego. Parliamo soprattutto dei poteri del Presidente a riguardo del governo, tema che oggi assume una importanza particolare. L’esperienza di questi ultimi anni ha mostrato che tutte le volte che i partiti del parlamento non sono stati in grado di costruire una maggioranza di governo capace di affrontare una situazione di grave crisi e hanno avuto timore di affrontare elezioni anticipate è stato il Presidente della Repubblica ad assicurare una supplenza e pilotare una soluzione attraverso l’incarico ad una figura indipendente di alto prestigio capace di costruire una larga maggioranza. E’ stato così con i governi Ciampi, Monti e ora Draghi. Ma i capi dello stato sono intervenuti anche in maniera meno clamorosa scartando alcune nomine di ministri ritenute poco affidabili e garantendo la fedeltà del paese ai suoi impegni internazionali.

    Dunque una specie di “semipresidenzialismo all’italiana”? L’espressione, se da un lato coglie le potenzialità di una azione più propriamente politica del capo dello stato, è però eccessiva se presa troppo alla lettera. I capi dello stato italiani, anche in questi casi, hanno poi lasciato ai rispettivi governi di svolgere il loro ruolo proprio. Dunque una netta differenza rispetto al caso francese.

    Questa precisazione ci serve per affrontare i dilemmi che si pongono oggi in Italia. Tra poco più di un mese si deve eleggere il nuovo capo dello stato, ma nello stesso tempo ci si interroga su che fine farà un presidente del consiglio insediato da pochi mesi per risolvere una emergenza e con lui il suo governo. I due temi cruciali si intersecano (anche perché una stessa persona – Draghi – è menzionata per entrambi i ruoli) e sollecitano risposte le cui conseguenze non possono essere sottovalutate. La scelta del capo dello stato per i riflessi che può avere sul governo deve tenere in attenta considerazione le responsabilità che quest’ultimo ha in questo momento.

    La serietà della situazione interna (la ripresa della pandemia e la gestione del PNRR e delle riforme che questo richiede) ma anche di quella esterna (le tensioni con la Russia, le importanti scelte economiche e di politica estera che l’Unione Europea deve affrontare nei prossimi mesi) suggeriscono l’importanza di una continuità di governo sotto la guida di una figura dall’alto prestigio interno e internazionale come quella di Draghi fino alle elezioni del 2023. Sarebbe assai difficile trovare oggi un’altra figura capace di assicurare la permanenza e la funzionalità di questo governo di larga coalizione. Questo suggerisce che l’elezione di Draghi (certamente per altri versi auspicabile) alla presidenza della repubblica aprirebbe dei problemi di prima grandezza per il governo del paese. Se questo è il punto principale le risposte per l’elezione del capo dello stato vengono di conseguenza. Occorre eleggere una persona che sia in grado da quella alta posizione di proteggere dalle turbolenze della fase pre-elettorale un governo che vede fare ancora molte cose importanti. E che poi sappia guidare la forse ancora più difficile fase post-elettorale.

    Resta infine un punto importante. Al sacrifico chiesto a Draghi di rinunciare alla carica di capo dello stato si aggiungerà dopo le elezioni del 2023 anche una sua messa in disparte? Sarebbe una grave perdita per l’Italia e anche un gesto di ingratitudine. Credo che in Italia si dovrebbe riflettere seriamente su come valorizzare anche dopo le elezioni del 2023 una importante risorsa come quella di Draghi. Perché escludere che nella complessa formazione di un governo dopo le prossime elezioni questa figura non possa giocare di nuovo un ruolo? O che possa avere un ruolo di primo piano nelle cariche europee?

    Maurizio Cotta

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