Il nuovo anno e il dilemma dell’Afghanistan
Il 2022 si apre in un clima di tensioni internazionali. Preoccupano le opinioni pubbliche delle democrazie di tutto il mondo alcunifocolai di crisi, come le truppe russe al confine con l’Ucraina o le mire della Cina su Taiwan e Hong Kong. La nostra memoria corta tende forse a dimenticare una pesantissima eredità lasciata dall’anno appena trascorso, cioè il ritorno del regime dei Talebani in Afghanistan.
Dopo la precipitosa fuga da Kabul della scorsa estate, un quesito cruciale può essere formulato così: “in che modo le democrazie possono agire per difendere i diritti umani, soprattutto quelli delle donne, e aiutare un popolo poverissimo, soggetto a una disumanadittatura?”
Questa domanda ha riguardato in passato e riguarda tuttora anchealtre situazioni, come l’Irak, la Libia, la Corea del Nord, i territori sottoposti all’Autorità palestinese, la Bielorussia o la Siria.
Se si vogliono escludere gli enormi costi delle soluzioni militari, allora gli interventi proposti consistono essenzialmente in sanzioni di vario genere: finanziarie, commerciali, tecnologiche e culturali. L’obiettivo è quello di mettere in difficoltà i regimi dittatoriali, nella speranza che allentino le oppressioni sui loro sudditi o si astengano dall’invadere territori altrui. Ma questi provvedimentipossono sollevare alcune questioni etiche.
I precedenti delle sanzioni commerciali
Colpire i Paesi avversari con misure di carattere economico è uno strumento antico della politica internazionale, fin dai tempi in cui era usuale il ricorso alla guerra. Per esempio, nella storia si ricordail cosiddetto “blocco continentale” dell’epoca napoleonica, che all’inizio dell’Ottocento contrappose la Francia e i territori da essa conquistati al dominio marittimo dell’Inghilterra. Oltre un secolo dopo, in Italia, il Fascismo denominò “inique sanzioni” il blocco commerciale deciso nel 1935 dalla Società delle Nazioni a seguito dell’invasione dell’Etiopia. In anni più recenti, sanzioni più o meno rigide sono state applicate nelle aree di crisi già citate.
Una critica ricorrente a sanzioni ed embarghi riguarda la loro scarsa efficacia. In realtà esiste una certa gamma di stratagemmi per aggirare queste restrizioni, come la cosiddetta “triangolazione”: si trasferisce una merce o una tecnologia proibita a un terzo Paese non soggetto a vincoli, che poi provvede a girarla a chi non la potrebbe ottenere direttamente.
Ma la modalità più consueta per eludere le sanzioni rimane il contrabbando. Organizzazioni criminali ben ramificate possono garantire finanziamenti ingenti a ogni tipo di regime, come si è visto anche nel Mediterraneo, attraverso la vendita illegale del petrolio libico. E perfino l’Isis in un recente passato è riuscito a esportare idrocarburi e reperti archeologici attraverso il confine della Turchia. Nel caso dell’Afghanistan, il contrabbando dell’oppio è di estrema importanza.
La difficoltà di blindare ermeticamente le frontiere dei territori sottoposti a sanzioni non dovrebbe tuttavia condurre alla frettolosa conclusione che le sanzioni non servono a niente. Esse costituiscono invece una spina nel fianco di una certa rilevanza, come dimostrano le insistenti richieste di rimuoverle, da parte dei regimi che vi sono soggetti.
Colpire i regimi e non i popoli
In certi casi i provvedimenti in questione non sollevano particolari dilemmi morali, perché sembrano rientrare nelle ordinarie conflittualità tra Stati con ordinamenti politici o interessi economici diversi e difficilmente compatibili, come vediamo attualmente nei rapporti tra Usa e Cina. In altri casi però ci si pone il problema morale di negare risorse indispensabili a popolazioni già duramente provate non solo dalle dittature ma anche dalle guerre o dall’estrema povertà. Ed è questo il caso dell’Afghanistan.
La soluzione teorica sarebbe quella di colpire i regimi senza danneggiare le popolazioni. La soluzione pratica però è straordinariamente complessa.
Le poche organizzazioni umanitarie rimaste operative in Afghanistan sollecitano aiuti internazionali, che stentano a essere concessi, per evitare il riconoscimento di fatto del nuovo regime. Un compromesso accettabile sembrerebbe quello di impedire ai Talebani l’acquisto di armi e di tecnologie sofisticate oppure la vendita di droghe, lasciando però libera l’importazione di derrate alimentari e di medicinali. Questo dovrebbe mettere in difficoltà ilregime, senza danneggiare le popolazioni.
A parte le triangolazioni e il contrabbando, un’ipotesi del genere però funzionerebbe solo a due condizioni: la prima è che la distribuzione di questi generi di prima necessità sia controllata da un’autorità indipendente, così da evitare che i Talebani se ne approprino riservandoli ai loro sostenitori, anziché ai più bisognosi. La seconda condizione sarebbe che i soldi risparmiati dal regime per consentire ai sudditi almeno la possibilità di sopravvivere (senza la quale i Talebani stessi non manterrebbero nemmeno una massa su cui esercitare il loro dominio) non siano utilizzati per rafforzare il regime medesimo.
Nessuna di queste due condizioni sembra minimamente plausibile.Al contrario, qualunque forma di assistenza umanitaria rischia di tradursi in un indiretto seppure inconsapevole sostegno alla permanenza dei Talebani al potere, a meno che non sia la popolazione stessa a ribellarsi, cosa che però sarebbe fattibileanche in assenza di sanzioni esterne, se ve ne fosse davvero la volontà.
In concreto, si potrebbe concludere a malincuore che in Afghanistan non è possibile abbandonare donne e uomini a un destino spietato, di cui le democrazie sono in parte responsabili. Ma senza illudersi di non fare un involontario favore al regime dei Talebani.
Enrico Maria Tacchi