La guerra di Putin
Maurizio Cotta
Che la guerra di invasione della Ucraina debba essere definita come “la guerra di Putin”, credo non possa essere messo in dubbio. E questo vale sia per il suo inizio, icasticamente messo in evidenza dalla ormai famosa riunione del Consiglio di Sicurezza russo del 21 Febbraio 2022 nel corso della quale il leader russo ha “istruito” come un severo maestro ministri e collaboratori sulle mosse da adottare, che per la sua fine che sarà decretata da un Putin stesso che accetta in qualche modo di riconoscere il fallimento/ridimensionamento del suo programma iniziale, oppure da una crisi interna del suo regime. Definire questa guerra come la guerra di Putin serve quindi a comprenderne meglio origine, finalità e sviluppi.
Mi spiego meglio. Innanzitutto occorre sottolineare che in Russia il regime politico si è progressivamente accentrato intorno alla figura di un leader unico e solitario che ormai da un ventennio guida con pugno di ferro la politica del paese. La decisione di avviare un atto così enorme come quello che l’ufficialità russa vieta di chiamare guerra e consente solo di nominare come Voyennaya Spetsoperatsiya (operazione speciale militare) pena condanne amministrative e penali, ma che è una vera guerra di invasione e sistematica distruzione nei confronti di un paese sovrano, è quindi da attribuire pienamente a lui.
E’ utile fare qualche passo indietro per capire come si è determinata questa situazione e quali ne siano i caratteri. Molto in breve, il punto di partenza è il crollo (dal suo interno) del regime sovietico con le due crisi gemelle che questo ha comportato. La prima crisi è rappresentata dal collasso dello stato sia come sistema di autorità (con la conseguenza di un drammatico vuoto di potere all’interno) che come entità territoriale (con la perdita di ampi spazi sia in Europa che in Asia). La seconda crisi è quella della perdita dello status di grande potenza alla pari con gli Stati Uniti che aveva caratterizzato il secondo dopoguerra. A questa duplice crisi sembrava inizialmente fosse possibile rispondere con un processo di democratizzazione all’interno e di rappacificamento con l’Occidente all’esterno. Queste due strade hanno incontrato presto notevoli difficoltà (sulle quali qui non è possibile soffermarsi) e l’ascesa, prima in sordina poi via via più dominante, dell’ex-agente del KGB Vladimir Putin si è andata identificando sempre più chiaramente con una strategia politica bifronte completamente diversa. Una strategia cheprogressivamente si caratterizzerà come una strategia di revancheinterna e internazionale. L’elemento che unisce le due facce è un nazionalismo grande russo che mescola senza troppe distinzioni elementi del passato zarista e di quello sovietico.
All’interno la strategia di Putin è stata quella di riaffermare l’autorità centrale o la “verticale del potere” secondo l’espressione che allora entra in voga: i potentati economici indipendenti formatisi nel periodo eltsiniano, le spinte centrifughe presenti in alcune parti del paese (vedi Cecenia) e le opposizioni liberali sono viste come gli ostacoli a questo disegno da eliminare. L’arresto, condanna ed espropriazione del magnate del petrolioChodorkovskij nel 2003-2005 sono l’inequivocabile messaggio che porta gli altri oligarchi o a lasciare il paese o a mettersi sotto la protezione di Putin. La seconda guerra cecena (1999-2009) combattuta e vinta senza esclusione di colpi (compresa la distruzione della capitale Grozny e stragi di civili) mette fine non solo alle istanze separatiste ma anche ai desideri di autonomia delle repubbliche della federazione russa che sono riportate sotto il controllo ferreo di Mosca. Infine le opposizioni democratiche e liberali sono state progressivamente depotenziate attraverso il controllo sui media televisivi, le strette della censura, i limiti alla libertà di manifestazione e regolamenti elettorali sempre più escludenti. Non sono neppure mancati numerosi attentati alla vita,per lo più riusciti, nei confronti degli esponenti più prestigiosi dell’opposizione (dalla giornalista Anna Politkovskaia, a Boris Nemtsov, e infine a Alexiej Navalny). Le opposizioni che ancora nel 2011-13 con le loro ampie proteste di piazza facevano temere il Cremlino sono state soppresse e con la guerra in Ucraina le ultime voci dell’opposizione (il quotidiano Novaya Gazeta, la radio Ekho Moskvi, la televisione Dojd, ecc.) hanno dovutointerrompere pubblicazioni e trasmissioni.
La stretta sulle opposizioni è diventata tanto più parte necessaria del disegno putiniano quanto più il presidente russo ha visto nei paesi limitrofi affermarsi la democrazia liberale o comunque contestazioni molto forti al potere autocratico (come le cosiddette rivoluzioni colorate in Georgia e Ucraina o le proteste contro Lukaschenko in Bielorussia). Secondo i dettami del nazionalismo interno gli oppositori o semplicemente le voci indipendenti sono stati sempre più etichettati come “agenti stranieri” e poi addirittura come organizzazioni terroriste.
Il nazionalismo interno si è coniugato con un nazionalismo revanscista esterno. Anche perché i risultati non brillanti sul piano dello sviluppo economico interno (non bisogna restare abbagliati dal luccichio di Mosca, ma visitare le città della provincia russa) avevano bisogno di essere rafforzati da successi internazionali capaci di soddisfare l’orgoglio nazionale ferito. Giocando anche sui problemi delle cospicue minoranze russofone rimaste fuori dei confini della Federazione Russa dopo il crollo dell’Unione Sovietica Putin ha sfruttato tutte le occasioni alla sua portata per ritagliarsi protettorati o acquisizioni territoriali a spese di paesi vicini deboli e internamente fragili: in Georgia con l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud (2008), in Moldavia con la Transdnistria, in Ucraina nel 2014 con una parte del Donbass e la Crimea. In genere queste operazioni sono state condotte approfittando di situazioni internazionali che vedevano altre potenze impegnate su fronti diversi e comunque restie a impiegare energie per far rispettare le leggi internazionali. Nel 2022 Putin ha pensato di poter fare un passo più grande con l’Ucraina proponendone la “demilitarizzazione” e la “denazificazione”, in sostanza la riduzione di un paese di più di 40 milioni di abitanti con un governo eletto democraticamente al rango di paese satellite.
E’ interessante notare che questo passo non è stato solo attuato “pragmaticamente” con l’invasione del 24 febbraio, ma è statoiscritto in una complessiva visione della storia russa già espressa in un articolo “dottrinario” del 12 luglio 2021 su “L’unità storica dei russi e degli ucraini”, che affermava in sostanza l’idea di una grande Russia della quale l’Ucraina deve in qualche modo far parte rinunciando alle ambizioni di stato pienamente sovrano e libero di decidere il suo destino (magari orientandosi verso la Unione Europea).
Questo orientamento dottrinario, oltre alle caratteristiche tipiche di un regime fortemente accentrato nel quale nessuno osa contraddire il leader supremo, ha guidato la decisione di Putin e è molto probabilmente alla base dei gravi errori di valutazione che l’hanno caratterizzata. L’Ucraina si è rivelata nel frangente della guerra tutt’altro che una mera appendice del mondo russo pronta adisfarsi del suo Presidente e ad abbracciare il “liberatore” russo. Al contrario la sua fiera resistenza ha messo in gravi difficoltà un esercito russo assai poco convinto nei suoi ranghi inferiori della bontà dell’impresa. La guerra da rapida e indolore operazione di decapitazione dello stato ucraino si è trasformata in una terribile guerra di distruzione di vite e infrastrutture civili del paese che si voleva “liberare”. Certamente ha favorito una sempre più netta presa di distanza del paese ucraino dal suo “fratello slavo” e un chiaro avvicinamento all’occidente europeo.
Il problema ora però è come far finire una guerra nella quale chi ha attaccato ha impegnato tutta la sua visione e il suo prestigio. Purtroppo è oggi per Putin molto difficile fermarsi e tornare sui suoi passi, pensando anche che si avvicina nel 2024 una nuova elezione presidenziale. Può accontentarsi di una neutralità dell’Ucraina solidamente garantita e quindi rinunciare al “protettorato” che voleva stabilire? Può recedere dalle conquiste territoriali di questo mese e accontentarsi di un congelamento della situazione della Crimea? In sostanza può rinnegare la visione che ha guidato questa avventura militare? O perché questo accada è necessario che qualcosa si rompa nella “verticale del potere” in Russia? Ahimè la “guerra di Putin” rende difficili previsioni ottimistiche a breve.