La zavorra del costo del lavoro
Il dibattito politico si sta infiammando in queste settimane intorno al tema relativo al costo del lavoro in Italia. L’iniziativa della Commissione europea sull’introduzione del salario minimo, la ribellione delle parti sociali che vedono il rischio di una riduzione del loro potere negoziale, l’assenza di proposte concrete su cui discutere in sede parlamentare stanno animando gli animi all’interno della maggioranza che sostiene il governo Draghi, palesando posizioni difficilmente conciliabili, col rischio di una vera e propria spaccatura politica della quale il Paese non ha bisogno in questo travagliato 2022.
L’apice delle controversie politiche è particolarmente focalizzato sulla crescente insostenibilità per imprese e lavoratori degli oneri che gravano sui salari, da sempre molto onerosi, ma ancor più accentuati in conseguenza del diminuito potere di acquisto delle famiglie italiane a causa dell’incremento vertiginoso dell’energia e del carrello della spesa, conseguenze di due anni di pandemia e di oltre cento giorni di guerra in Ucraina.
L’allarme è stato lanciato anche dall’Ocse, l’Osservatorio europeo sulla situazione economica, che nelle sue puntuali analisi ha evidenziato numeri alla mano come lo stipendio in Italia sia “mangiato” da tasse e contributi previdenziali. Fatto 100 il costo che l’azienda si accolla per un dipendente, il 60% viene divorato dallo Stato prima che quel che rimane finisca sul conto del lavoratore.
Per rendere l’idea, nell’arco di un anno solare una persona lavora fino a luglio per pagare le tasse e da agosto inizia a guadagnare per sé. Il datore di lavoro, invece, paga un costo del lavoro tra i più alti d’Europa, visto che la media Ocse è pari al 46,5%; in Italia il peso contributivo (33%) e quello fiscale (26%), sommati sfiorano appunto il 60%.
In termini di valore economico, a fronte di 300 miliardi di salari lordi corrisposti in media ogni anno nel settore privato, lo Stato incassa circa 100 miliardi di contributi previdenziali e 80 miliardi di Irpef per un totale di 180 miliardi di euro a carico dei datori di lavoro e dei lavoratori.
Ecco spiegato perché sia Confindustria nella convention di Trento, sia i sindacati hanno posto come primo punto dell’agenda politica la richiesta di rivedere al ribasso il cuneo fiscale. Ora si attende una convocazione da parte di Draghi per avviare i lavori del tavolo tecnico dal quale si spera possa arrivare una proposta concreta e in tempi ragionevoli.
La riduzione del cuneo consentirebbe, a parità di costo per l’azienda, di aumentare il netto in busta paga al lavoratore, ovvero, a parità di netto in busta paga un minor costo complessivo del lavoro che porterebbe il nostro sistema produttivo a un importante recupero di competitività sui mercati internazionali, aumentando, inoltre, l’attrattività del nostro Paese rispetto a possibili investitori stranieri. Insomma, sarebbe una soluzione win-win per imprese, lavoratori e sicuramente anche per la politica del governo.
Con posizioni parzialmente differenti le organizzazioni sindacali spingono per arrivare a una significativa riduzione del costo del lavoro, trovandosi per una volta in piena sintonia con la controparte datoriale.
Per i lavoratori una busta paga più sostanziosa vorrebbe dire più potere di acquisto, condizione necessaria per rialzare il trend economico attuale.
La situazione determinatasi dopo due anni di crisi pandemica e tre mesi di guerra alle porte dell’Europa ha pesantemente inciso sulla capacità di reggere del nostro tessuto imprenditoriale; bene hanno funzionato gli ammortizzatori sociali durante le fasi più critiche del lockdown; ma tali strumenti hanno un carattere straordinario d’emergenza e non possono essere sostenuti nel tempo; tanto meno rappresenta una soluzione plausibile insistere sul Reddito di cittadinanza che genera non solo enormi costi per le casse dello stato, ma innesca un meccanismo vizioso di assistenzialismo che nel tempo può diventare una pericolosa arma di ricatto, soprattutto nelle aree più disagiate del Paese, con il quale orientare il consenso elettorale.
Sempre prendendo in mano la calcolatrice, il costo attuale del Reddito di cittadinanza si aggira sui 10 miliardi che se fossero destinati alla riduzione del costo del lavoro porterebbero a saldo zero ad una riduzione di 3,5 punti percentuali del cuneo fiscale, dal momento che la riduzione del cuneo ha un costo di circa 3 miliardi per ogni punto percentuale.
Ancora una volta la nostra politica è chiamata a scegliere tra misure discutibili dal ritorno immediato in termini di voti e soluzioni strutturali del costo del lavoro che andrebbero a incentivare e premiare chi più si impegna e contribuisce con il proprio lavoro al benessere di tutti.
Pietro Broccanello