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    La conferenza di Teheran, il grano ucraino e l’Europa

    La conferenza di Teheran, il grano ucraino e l’Europa

    di Marco D’Agostini

    • Si vanno delineando nuovi assi strategici in cui dovremo capire quanto La Turchia costituirà un baluardo degli interessi occidentali nel partenariato che va a delinearsi con Iran e Russia e quanto invece va a costituirsi un nuovo polo in cui tendenzialmente la Turchia appare spostarsi in una posizione meno solidamente ancorata alla NATO di quanto avvenuto negli ultimi decenni.
    • L’UE non sembra particolarmente presente sullo scenario Mediterraneo ma cosa sta avvenendo sui tavoli geostrategici per gli equilibri inerenti alla sicurezza e alla pace che poi sono determinanti anche per le direttrici delle politiche economiche?

    *** ***

    La conferenza di Teheran che si è svolta il 19 luglio con l’intervento di Putin, Erdogan e il presidente iraniano Raisi non avrà probabilmente sul mondo lo stesso impatto che ebbe l’omonima conferenza con Roosevelt, Churchill e Stalin del 1943, che anticipò nel metodo e nel merito la conferenza di Yalta, con la quale il mondo fu diviso in sfere di influenza che ne hanno caratterizzato gli equilibri geostrategici per almeno quattro decenni, ma sicuramente potrebbe segnare un passaggio importante negli equilibri della regione euromediterranea.

    Putin ed Erdogan partecipano entrambi con forti aspettative e non a caso, nel corso della conferenza trilaterale, è stato previsto anche un importante confronto bilaterale tra Russia e Turchia.

    Per Putin si pone, tra gli obiettivi primari, quello di allontanare dallo schieramento occidentale la Turchia, importante componente della NATO, la quale, sebbene stia fornendo i propri droni all’Ucraina e abbia annunciato di non essere disposta a fornirli alla Russia, ha già manifestato significativi segnali di amicizia nei confronti di Mosca rifiutandosi di adottare le sanzioni che sono state invece poste in atto dagli altri Paesi occidentali. Putin, inoltre, offrendo il proprio supporto a Erdogan sullo scenario mediorientale, potrebbe acquisire la promessa di un fattivo intervento della Turchia per bloccare l’adesione alla NATO di Svezia e Finlandia. La Turchia, infatti, sebbene abbia infine concesso, in occasione del vertice NATO di Madrid del 29 giugno, il proprio placet all’adesione all’Alleanza atlantica dei due nuovi candidati, conserva la facoltà di frenare o bloccare la conclusione del processo in sede di ratifica dei relativi protocolli di adesione da parte del proprio Parlamento. Al riguardo appaiono indicative le obiezioni turche già seguite al vertice di Madrid circa gli inadempimenti degli impegni assunti dai due Stati scandinavi in merito all’estradizione di alcuni presunti terroristi curdi.

    Erdogan, da parte sua, sicuramente è sensibile alle vicende delle aree limitrofe alla Turchia non meno di quanto sia attento alla questione Ucraina, da un lato, e, dall’altro, si accinge ad affrontare le più difficili elezioni nel suo lungo mandato come Presidente della Repubblica, essendo sfavorito nei sondaggi, e ha quindi bisogno di un forte successo di politica estera che rafforzi la sua immagine. E tale “successo” potrebbe venire dall’avvio di una nuova offensiva, dopo la conquista di Abril, contro le milizie curde in Siria (alcune delle quali sostenute, peraltro, dagli Stati Uniti), volta a consolidare l’influenza turca in Siria, da presentare come un’operazione di contrasto del terrorismo curdo e, soprattutto, tesa a ricompattare ambienti sociali, economici e politici nazionalisti sotto la sua guida in vista delle elezioni.

    La posta in gioco, quindi, da parte di Putin, è quella di favorire un riavvicinamento tra i suoi fedeli alleati nell’area, il governo del presidente Assad, da sempre sostenuto dai russi, e l’Iran (col quale sono stati definiti, nel corso del vertice, accordi bilaterali per investimenti in campo energetico dal valore di 40 miliardi di dollari oltre alle intese sull’utilizzo di una piattaforma finanziaria che potrebbe costituire un’alternativa globale a quelle basate sul dollaro e ai colloqui sullo scambio di droni iraniani con missili antiaerei russi), unito anche dalla comune rivalità con gli Stati Uniti, e la Turchia. In tale prospettiva Putin cerca in particolare di ottenere dagli alleati Damasco e Teheran luce verde alla Turchia per una sua nuova offensiva contro i curdi nel Nord della Siria che potrebbe essere “ripagata” da un allentamento dei legami di Ankara con la NATO e gli USA.

    Erdogan, da parte sua, ha interesse a frenare la crescente influenza dell’Iran in Siria e, in particolare, ad Aleppo, dove la presenza delle forze iraniane a fianco dell’esercito di Assad sta favorendo una modificazione degli equilibri demografici a favore degli sciiti e a danno dei sunniti. A tal fine la Turchia, che controlla l’area a ovest di Aleppo, vorrebbe favorire il reinsediamento nella zona di rifugiati siriani attualmente ospitati nei suoi campi profughi. Tuttavia, il reinsediamento dei profughi passa per il riavvio delle coltivazioni nella regione che, a sua volta, dipende dalla disponibilità di fonti idriche controllate al 60 per cento dalle zone in mano alle forze curde. Quindi, senza un accordo che spiani la strada all’intervento contro i curdi a nord di Aleppo, le forze turche potrebbero subire pesanti perdite dovendo attraversare zone controllate dall’esercito di Assad e milizie sciite tra cui i pasdaran iraniani e le milizie hezbollah del Libano.

    Se l’intesa dovesse andare in porto nel prossimo futuro (al momento, apparentemente, lo stesso Ayatollah Khamenei sembra aver ufficialmente diffidato Erdogan dall’attaccare le roccaforti dei curdi in Siria, Tal Rifat e Manbij), si verrebbe a delineare un asse strategico dalla Russia al Medio Oriente idoneo a porre una pesante ipoteca sul Mediterraneo. Rispetto a tale prospettiva non appare chiaro quale sia il ruolo e la strategia dell’Europa nella regione. Coinvolta nei negoziati di pace avviate dalle Nazioni Unite con l’International Syria Support Group (ISSG), la cui attività si è sostanzialmente arenata dal 2016, da ultimo con l’annullamento dei colloqui del prossimo luglio, l’UE appare emarginata dal cosiddetto processo di Astana, avviato nella capitale Kazaka nel 2017 e incentrato sul ruolo dei tre Paesi che si sono incontrati a Teheran, Iran, Russia e Turchia. Peraltro l’UE, a differenza del Presidente degli stati Uniti Biden, non è stata neanche invitata al concomitante vertice arabo di Jedda, che si è tenuto lo scorso 16 luglio e dove sono svolte importanti discussioni su temi quali il conflitto in Yemen, la crisi siriana, l’Afghanistan, l’assistenza economica all’Autorità palestinese, l’energia, lo sviluppo sostenibile, la sicurezza alimentare e la sicurezza marittima.

    In un’area non troppo distante dalla Siria e ancora più vicina all’Unione europea, o meglio, interna all’Europa, è inoltre maturato un altro accordo, concluso a Istambul il 22 luglio, di rilevanza economica e umanitaria ma con risvolti strategici, che riguarda lo sblocco belle navi con il grano dell’Ucraina dal porto di Odessa e dagli altri porti del Paese. Nei relativi colloqui sono stati coinvolti i rappresentanti delle parti in causa, Russia e Ucraina, dell’ONU e della Turchia e il loro positivo esito è stato favorito dal citato vertice di Teheran. Anche in questo caso non sono chiari il ruolo che vuole interpretare l’Europa, gli obiettivi della sua strategia, al di là di un generico supporto ad un processo il cui avvio pure è stato fortemente sostenuto da un leader europeo quale il Presidente del Consiglio italiano, Draghi.

    L’intesa sullo sblocco delle navi con il grano potrebbe inoltre aprire la strada ad un più ampio processo, se non di pace, di tregua, come auspicato anche dal Santo Padre.

    Ma ciò che ci chiediamo è quanto sia in grado l’UE di incidere sulla definizione di tali accordi se neanche partecipa alle relative trattative. È sufficiente un supporto esterno alla causa per lo sblocco del grano ucraino e, più in generale, alla ricerca di un percorso verso la pace mediante un mix di sanzioni alla Russia e di aiuti all’Ucraina o forse non si rende necessaria una presenza più incisiva e visibile, anche per offrire all’opinione pubblica una manifestazione più chiara dell’azione europea in favore di un percorso di pace?

    Oltre al profilo umanitario globale – il blocco del grano sull’Ucraina, che costituisce uno dei maggiori produttori mondiali, acuisce infatti la crisi alimentare di tanti Paesi del Terzo Mondo e, in particolare, dell’Africa, già colpiti da carestia e siccità legate agli squilibri climatici – la questione del grano che deve transitare per il Mar Nero non può essere considerata esterna all’area di azione dell’UE. Il Mar Nero costituisce una sponda meridionale dell’Europa e, sebbene l’UE non possa che rallegrarsi dell’accordo e fornirgli tutto il suo supporto, laddove richiesto, appare necessaria una riflessione sul gruppo di lavoro che lo sta gestendo che vede, oltre che dalle parti in causa e le Nazioni Unite, la sola Turchia.

    L’Unione europea non può limitarsi a guardare: ci dobbiamo chiedere se sia pronta a mandare proprie navi per il trasporto del grano, pronta a comporre una flotta che svolga operazioni di supporto di polizia internazionale per la scorta in sicurezza delle navi e per lo sminamento dei percorsi o se, ancora una volta, si limiterà a intervenire esclusivamente in ambito finanziario, magari con qualche forma di sostegno a questa o quella iniziativa con un pacchetto di aiuti.

    A fronte di questi incessanti sviluppi sugli scenari internazionali, solo per attenerci a quelli che riguardano le aree limitrofe all’Unione europea, non possiamo dichiararci soddisfatti del grado di operatività della sua politica estera, sebbene occorra non disconoscere i risultati finora raggiunti nel quadro delle emergenze legate alla pandemia, prima (con il Recovery Fund, il NGEU, il piano di indebitamento per finanziare l’emergenza, gli acquisti comuni di vaccini, interventi straordinari della BCE per la stabilizzazione monetaria, ecc), e, dopo, con la crisi ucraina (coesione sulle sanzioni per l’aggressione russa, apertura al riconoscimento nei confronti dell’Ucraina dello status di Paese candidato, aiuti finanziari e con materiali di armamento a Kiev, avvio di piani per la gestione della crisi energetica, ecc).

    Si tratta di interventi ciclopici, inconcepibili senza le infrastrutture politiche e amministrative dell’Unione europea e tuttavia ancora insufficienti rispetto all’obiettivo di dotarsi di una vera politica estera e di sicurezza comune, che possa contare su una politica di sicurezza e difesa, come già previsto dai Trattati vigenti.

    Dal vertice recente di Madrid della NATO è emersa la decisione, alla luce nelle crescenti preoccupazioni per la stabilità internazionale, di costituire una forza di reazione rapida di 300.000 uomini. Sul tipo di supporto che l’Europa saprà fornire a tale forza si gioca a nostro avviso un elemento importante della credibilità della capacità dell’Unione europea di dotarsi di una vera politica estera e di sicurezza. La politica estera non può limitarsi a interventi di natura commerciale e finanziaria. Purtroppo l’aggressione della Russia all’Ucraina ci ricorda che una politica estera non supportata da una capacità di difendere i valori e principi che si professano non è in grado di risultare determinante sul campo.

    Se invece l’Unione europea raggiungesse una coesione tale da costituire, con l’armonizzazione e l’integrazione delle sue forze nazionali, il nerbo della nuova forza Nato, dimostrerebbe a se stessa, alla sua opinione pubblica e al mondo: da un lato, che è capace di individuare dei solidi obiettivi comuni per i quali mettere a disposizione, oltre che di finanziamenti, delle risorse umane; dall’altro, che tale processo di maggiore coesione e integrazione politica, anche in campo militare, non si pone in contrapposizione né in competizione con la solidarietà e gli impegni assunti nell’ambito dell’Alleanza atlantica.

    Ovviamente una simile prospettiva resterebbe una mero auspicio senza un forte impegno politico a definire tutti i passi necessari quali l’individuazione degli obiettivi generali e specifici comuni, il superamento di obsoleti egoismi nazionali in nome di un ritrovato spirito di solidarietà, la disponibilità – nella consapevolezza dell’incapacità di dispiegare una qualunque influenza sugli scenari mondiali senza unire le rispettive energie nazionali – ad esercitare una porzione di sovranità in modo condiviso (senza l’unione delle forze gli Stati europei saranno inesorabilmente destinati a ridurre e poi a perdere la loro sovranità), la volontà di individuare le necessarie risorse.

    Se vi sarà la capacità politica di comprendere questo allora saranno necessari alcuni passi conseguenti quali ad esempio una revisione della bussola strategica appena adottata a Bruxelles, di cui appare risibile l’obiettivo di costituire una forza di 5000 uomini a fronte di eventi come la guerra in Ucraina e la perdurante crisi in parecchie aree della sponda meridionale del Mediterraneo. La bussola strategica deve essere finalizzata a costituire, in armonia e coerenza con gli impegni assunti con la NATO, in particolare la nuova forza rapida di 300.000 uomini, il nerbo di tale forza. Per fare questo è necessario anche intervenire sul piano istituzionale verificando la possibilità di estendere il voto a maggioranza, laddove possibile, anche sulle decisioni di politica estera e di difesa, da un lato, e, dall’altro, incrementare la capacità di spesa dell’Unione europea trasformando l’evento eccezionale dell’emissione di debito europeo chi si è concordato per far fronte alla pandemia da Covid in un normale strumento di finanziamento delle politiche comuni (ovviamente, in prospettiva, non solamente per finanziare la politica estera e di sicurezza ma anche per finanziare politiche di coesione economica e sociale, politica ambientale ricerca e altre politiche comuni).

    In questa prospettiva ci si dovrà anche adoperare per dare una risposta al tema della revisione dell’assetto istituzionale dell’Unione europea, verificando le proposte in campo quali la creazione di un nucleo di Paesi più coesi ovvero l’attivazione di quelle forme di cooperazione rafforzata già previste dai trattati vigenti.

    L’Italia storicamente, culturalmente, economicamente, politicamente e, non ultimo, nonostante il declino demografico, anche dal punto di vista del peso dei suoi cittadini nel popolo europeo, non può rinchiudersi in se stessa, nella soluzione dei suoi pur gravi problemi interni ma deve partecipare a testa alta a questa riflessione consapevole che un’Italia forte può rendere più forte l’Europa e, viceversa, un’Europa senza un’Italia forte è destinata al declino che, nel mondo globalizzato, significherà anche il declino dei singoli Stati membri.

    Anche per questo motivo non possiamo condividere le visioni di breve respiro, come quelle di chi guarda al beneficio immediato, legato più ai sondaggi che agli scenari globale, prescindendo da scadenze e crisi internazionali, per cercare di rilanciare invece la ricerca di soggetti politici idonei a dispiegare un’efficace azione di governo sulla scena europea e internazionale.

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