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    Guardando indietro al 2022 e in avanti al 2023.

    Guardando indietro al 2022 e in avanti al 2023.
    Qualche osservazione sul 2022
    Italia. Guardando al 2022 comincerò dalle buone notizie. In campo economico il paese ha potuto mettere a segno una crescita reale del Prodotto interno lordo che, sulla base dei dati disponibili fino al terzo trimestre, potrebbe avvicinarsi al 4% su base annua. Dunque meglio di molti altri paesi europei. Una crescita che sommata a quella del 2021 (+ 6,7% complessivo e +7,3% pro capite) indica che la reazione dell’economia italiana alla tremenda crisi del periodo COVID (-9% per il PIL nel 2020) è stata robusta. Questo dato complessivo è confermato dal miglioramento, anch’esso significativo, dell’occupazione (con il tasso di occupazione salito al 60,3% e quello di disoccupazione sceso al 8,1%). Ha sicuramente contribuito a questo quadro positivo il forte aumento degli investimenti (+10,8%) non solo nell’edilizia ma anche nella produzione di impianti, macchinari ecc.
    La forza o potremmo dire la resilienza del sistema economico italiano è un dato positivo che fa ben sperare per il futuro sempre che politiche adeguate siano di aiuto invece che di ostacolo.
    Ci sono però anche ombre che non devono essere dimenticate. Il divario tra Sud e resto d’Italia rimane grave. Il tasso di disoccupazione giovanile al 23,7% rimane troppo alto e così il numero dei cosiddetti Neet, giovani che non studiano e non lavorano (il 25% nella fascia 19-34 anni). Sulla base dei dati del 2021 risultava inoltre elevato il numero di famiglie in condizioni di povertà assoluta (il 7,5%) con una forte incidenza tra le famiglie con più figli. A fronte di una percentuale in situazione di povertà del 9,4% per tutti gli individui, la percentuale per i minori era del 14,2%. Per il 2022, in mancanza di dati aggiornati, dobbiamo limitarci ad ipotizzare qualche miglioramento (i dati disponibili dell’indice Gini sulla disuguaglianza vanno in questa direzione), ma il problema rimane certamente significativo. L’impennata dell’inflazione nella seconda metà dell’anno necessariamente incide negativamente sulle fasce più povere della popolazione. E poiché sappiamo che la povertà, oltre ad essere strettamente legata alla disponibilità di lavoro, dipende significativamente anche dal funzionamento del sistema scolastico, le percentuali elevate di abbandono prematuro (il 12,7% dei minori non arrivano al diploma delle superiori) ci segnalano che troppo poco è stato fatto su questo fronte per combattere un grave problema del nostro paese.
    Sul fronte della politica l’anno è stato, fino a settembre, caratterizzato dalla presenza di un governo, quello di unità nazionale guidato da Draghi, che ha goduto di grande fiducia nel paese e che ha pilotato con le sue politiche l’uscita dalla crisi pandemica e sostenuto la crescita del paese.
    Ancora una volta il ricorso ad un governo tecnico ha mostrato le incapacità del sistema dei partiti nell’affrontare le situazioni di maggiore difficoltà per il paese. A merito ulteriore di questo governo va ricordato che con la sua autorevole azione ha riportato l’Italia in posizione centrale nelle grandi scelte dell’Unione Europea (dal sostegno all’Ucraina, alle politiche energetiche). E’ apparso con molta chiarezza quanto l’autorevolezza di un leader di governo possa fare la differenza riguardo alla capacità del nostro paese di essere in Europa in posizione non subordinata ma propositiva. L’interruzione anticipata di questo governo, provocata da una parte delle forze politiche che lo sostenevano, ha portato alle elezioni anticipate a settembre e al primo governo guidato dalla destra del dopoguerra. Se il ritorno a un governo pienamente espressione degli equilibri partitici è legittimo e fisiologico (ma la tempistica poteva essere meno frettolosa e più rispettosa nei confronti dell’impegno speso da un primo ministro di grande caratura come Draghi), ora però spetta ai partiti dimostrare di essere all’altezza dei problemi seri del paese.
    Rapporti internazionali. Il 2022 ci ha fatto prendere coscienza di alcune realtà importanti ma trascurate. In primo luogo ha fatto “scoprire” ai paesi europei che la guerra è una possibilità (tragica, inumana…e tutto quello che si vuole aggiungere, ma reale) del sistema internazionale. Naturalmente non è che guerre non fossero già tragicamente presenti in altre parti del mondo (Yemen, Etiopia e Eritrea, ecc.), ma la loro distanza geografica e diremmo di “civilizzazione” ci ha troppo spesso fatto indulgere nell’idea compiacente che si trattasse di fenomeni tristi e deprecabili, ma tutto sommato abbastanza lontani da noi e dunque tali da non costringerci a fare veramente i conti con essi. La guerra in Ucraina scatenata dall’aggressione russa ci ha messi ineludibilmente di fronte a questa realtà: in un’Europa che consideravamo pacificata una “grande guerra” poteva scoppiare da un giorno all’altro.
    Abbiamo “scoperto” anche un’altra cosa, che l’Ucraina, che nel nostro immaginario prevalente collocavamo in un’area grigia alle frontiere dell’Europa e della quale non occorreva preoccuparci troppo, è invece pienamente in Europa e non potevamo far finta di niente come tutto sommato avevamo fatto dopo l’illegale annessione della Crimea del 2014 o la secessione sostenuta militarmente dalla Russia delle due regioni di Lugansk e del Donetsk. L’invasione russa del 24 febbraio 2022 ci ha fatto capire che per quanto si cerchi di chiudere gli occhi e le orecchie non è possibile immaginare la nostra Europa in pace nel momento in cui, in sprezzante violazione di tutte le norme internazionali, la Russia ha preteso di impadronirsi della direzione politica di un grande paese vicino (“denazificare” e “demilitarizzare” nel linguaggio del Cremlino) e di occuparne comunque una larga porzione territoriale. La eroica resistenza ucraina nei confronti dell’invasione ha avuto un ruolo fondamentale nel farci aprire occhi e orecchi.
    L’Unione Europea ha scoperto anche che la sua pur nobile ambizione di “grande potenza civile”, in grado cioè di esercitare un ruolo negli equilibri mondiali disponendo solo degli strumenti di azione non militari, presentava non pochi problemi nel momento in cui nello “zoo mondiale” non circolavano solo pacifici erbivori ma anche aggressivi carnivori. In particolare, il grande peso commerciale dell’Unione Europea nel suo complesso e individualmente dei più forti dei suoi paesi membri nel mondo non era certamente un fattore trascurabile negli equilibri internazionali, ma questo valeva nella misura in cui il terreno di gioco restava un terreno prevalentemente economico e non assumeva invece caratteri geostrategici o manifestamente militari.
    La vocazione che, semplificando un po’, potremmo definire “economicistica” dei paesi della UE, aveva indubbiamente ben servito il processo di integrazione tra gli stati dopo la seconda guerra mondiale (anche grazie ad una delega delle grandi questioni strategiche agli Stati Uniti), ma appariva in tutta chiarezza poco adeguata nel momento in cui sotto la guida di Putin la Russia faceva della rivendicazione del ruolo di grande potenza (territoriale e non solo nucleare) un elemento cruciale della su identità.
    Non si può non ricordare di questo anno anche la coraggiosa resistenza delle donne iraniane nei confronti delle politiche repressive delle libertà fondamentali del regime degli ayatollah.
    Il 2023 che comincia
    Italia. Dopo le elezioni di settembre abbiamo un governo con molte caratteristiche inedite che suscitano attenzione e sollevano interrogativi importanti. Un governo a maggioranza di centro- destra ma con un netto predominio numerico del partito più a destra dello spettro partitico, il primo governo della repubblica guidato da un leader della destra, e infine una donna a capo del governo. E, potremmo aggiungere, un governo che ha di fronte una opposizione fortemente divisa e senza un partito in grado di guidare una potenziale alternativa di governo.
    Un governo a maggioranza di centro-destra non è certo una novità dopo il 1994, ma la novità è che adesso questa maggioranza è dominata da un partito che, pur con tutte le trasformazioni da cui è nato, è finora sempre stato considerato il partito più a destra del quadro politico e un partito che non ha certo reciso tutti i collegamenti ideali e personali con quel Movimento Sociale che nella prima repubblica faceva parte delle opposizioni anti-sistema escluse dal gioco delle maggioranze di governo.
    Allo stesso tempo questo governo ha davanti a sé uno spazio potenziale di azione di cui da anni nessun governo disponeva. La coscienza di questa opportunità è spesso ribadita dalla presidente del consiglio quando parla di un governo di legislatura. La domanda che ovviamente si pone subito, è che uso vorrà e saprà fare di queste opportunità Giorgia Meloni. Il dato di incertezza nasce dal contrasto tra la grande (e legittima) ambizione di un leader politico che ha trasformato in pochi anni un mini-partito nel partito di maggioranza relativa (come si diceva della DC) e la realtà di questo stesso partito e della sua classe dirigente nazionale e locale che certamente non ha avuto molto tempo per crescere ed essere all’altezza delle sue nuove responsabilità. Ma ci sono anche i più generali interrogativi su quale significato possa assumere oggi il concetto di destra.
    Sul piano internazionale il capo del governo ha già fissato con sufficiente chiarezza alcune importanti linee guida della sua azione. In un contesto pesantemente segnato dalla guerra in Europa Meloni ha sposato la linea di attiva solidarietà atlantica ed europea all’Ucraina aggredita. Alcune non piccole incertezze della sua maggioranza sono state così messe a tacere. Le scelte della legge di bilancio hanno anche mostrato la volontà di non mettersi in rotta di collisione con le direttive della Commissione europea. Meloni ha contemporaneamente segnalato il desiderio di accostarsi al PPE, forza di maggioranza relativa nella UE, in vista dell’avvicinarsi delle elezioni europee del 2014.
    In sede europea ci sono naturalmente molti altri importanti temi (dalla ratifica del MES, alla riforma del Patto di Stabilità, alle politiche ambientali e fiscali, alla questione dell’immigrazione illegale) sui quali ci sarà da capire se questo governo sarà capace di partecipare attivamente e costruttivamente al processo decisionale comunitario andando al di là di quella critica a prescindere che nel passato ha caratterizzato ampi settori del centrodestra italiano.
    I test più importanti per il nuovo governo verranno però dalle politiche italiane. Il contesto economico finanziario con l’alta inflazione, un sostanziale arresto della crescita e l’impegno verso l’UE di attenersi a una politica di bilancio responsabile pone evidenti vincoli all’azione di governo. Contemporaneamente alcune grandi questioni del paese attendono risposte dal governo: la sanità con gravi problemi di personale e risorse ma anche necessità di ripensamento sistemico, un sistema fiscale sempre più disarticolato per effetto dei tanti interventi ad hoc e sempre meno rispondente a criteri di equità e di efficienza, la drammatica situazione demografica e le politiche familiari, e infine l’insuperato divario tra meridione e altre aree del paese, giusto per citare le principali. Saprà e vorrà misurarsi con questi temi il governo della destra? Sarà in grado di operare
    una scelta severa delle politiche sulle quali investire il grosso delle risorse, o preferirà tentare di placare con interventi a pioggia i tanti interessi particolari che i suoi partiti hanno blandito in passato, magari coprendosi con il fumo di politiche simboliche a forte impatto emotivo come il presidenzialismo? Cominceremo presto a vederlo.
    Europa. La continuazione della guerra in Ucraina, senza barlumi di speranza di una sua conclusione, rappresenta il più grave elemento negativo del nuovo anno. Iniziata da Putin e da un Putin sempre più uomo solo al comando della Russia con l’invasione dell’Ucraina, la fine della guerra dipende prima di tutto da una sua decisione (a meno ovviamente di una resa ucraina). Ma qui sta il problema, perché credo si debba convenire che la “operazione speciale militare”, come il capo del Cremlino ha voluto con ferrea determinazione definirla, è strettamente legata alla strategia politica personale di Putin. Ricordiamo che nel 2024 sono previste le nuove elezioni presidenziali alle quali, dopo la riforma costituzionale del 2020 Putin, è autorizzato a ripresentarsi nonostante i quattro precedenti mandati. Credo si possa ragionevolmente sostenere che, pur con tutte le ampie possibilità di manipolare i risultati elettorali di cui dispone, Putin intendeva presentarsi a questo nuovo test elettorale (forse l’ultimo, anche se in teoria replicabile ancora una volta) con dei successi di rilievo che ne consolidassero l’alone del leader che ha ricostruito la grandezza del paese e gli ha restituito il ruolo di superpotenza. L’attacco all’Ucraina era sotto molti punti di vista attraente in questa prospettiva. Un’operazione fulminea come quella che immaginavano Putin e i suoi stretti consiglieri che avesse decapitato il potere politico del paese vicino avrebbe ottenuto a “basso costo” vari risultati potenzialmente utili: avrebbe riportato sotto il controllo diretto o indiretto della Russia un grande paese come l’Ucraina con notevoli potenziali industriali e che una diffusa narrazione russa considera privo di una identità propria, avrebbe tolto di mezzo un pericoloso esempio di un altro pezzo dell’Unione Sovietica che provava (seppur con fatica) la strada della democrazia e un avvicinamento a Unione Europea e Nato, e infine avrebbe chiuso definitivamente la questione del Donbass, ancora aperta dopo la prima parziale annessione informale del 2014 (per non parlare della questione della Crimea). Il candidato Putin avrebbe potuto presentarsi agli elettori russi con un ricco bottino. I gravissimi errori di previsione sui quali questa impresa si basava (la rapida riuscita dell’attacco su Kiev, il crollo del vertice politico ucraino, la adesione di larga parte degli ucraini all’annessione alla Russia, l’acquiescenza degli Stati Uniti reduci dalla brutta esperienza afgana, l’incapacità dell’Unione Europea e dei suoi principali stati membri di reagire sul piano militare) hanno determinato sul campo gravi sconfitte russe e una durissima guerra di attrizione nella quale le ampie conquiste territoriali ottenute all’inizio dalla Russia sono minacciate. Per un dittatore che ha legato le proprie fortune politiche ad un’impresa di questo genere (che ha ribadito nell’autunno del 2022 con la formale annessione alla Federazione Russa dei territori occupati), tornare indietro è ora difficilissimo e (come è successo ad altri dittatori) rimane la speranza di rifarsi sul terreno con un’altra grande offensiva. Se questa interpretazione è, come temo, la più plausibile la pace è legata alla capacità dell’Ucraina di reggere di fronte alla prossima spallata russa e alla tenue possibilità di una crisi nella leadership politica russa grazie alla presa di coscienza degli enormi danni che questa guerra genera anche per la società russa. Bisognerà purtroppo attendere le campagne militari di primavera e dell’estate e migliaia di vittime per capire se qualche spiraglio di speranza potrà aprirsi.
    Nel frattempo sarà importante seguire il faticoso processo di auto-riflessione dei paesi dell’Unione Europea sulla loro capacità di farsi carico delle proprie responsabilità in materia di sicurezza e pace nel nostro continente.

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