IN RICORDO DI FRANCESCO D’AGOSTINO
PRESIDENTE EMERITO DELLA
–UNIONE GIURISTI CATTOLICI ITALIANI-
Il quattro maggio del 2022 i Giuristi Cattolici Italiani hanno dato l’addio al loro maestro, il filosofo e giurista Francesco D’Agostino. Membro fondatore del Comitato Nazionale di bioetica nel 1990 e suo presidente negli anni 1995-1998 e 2001-2006 “ha unito il profilo istituzionale, l’ambizione di mediare e unificare e il profilo di leader di una bioetica cattolica” (M. Ventura, Corriere della Sera di Giovedì 5 maggio 2022, pag. 43).
Ordinario di Filosofia del diritto e di teoria generale del diritto dal 1980, dapprima nelle università di Lecce, Urbino e Catania e dal 1990 di Roma Tor Vergata, dove diresse il dipartimento di Storia e Teoria del diritto è stato presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani e membro della Pontificia Accademia per la Vita e del Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani.
Questo scritto si propone di indicare alcuni punti cardine del pensiero del grande maestro scomparso,attraverso la riproposizione di giudizi da lui espressi, articoli e interventi in congressi scientifici, in modo che il lettore possa rendersi conto dello sforzo dottrinale che il Professor D’Agostino ha svolto,cercando di conciliare il pensiero dei classici che lui aveva a lungo studiato e dell’insegnamento millenario della Chiesa Cattolica con la modernità,adattando il pensiero e la prassi del magistero ai germogli di tempi nuovi che egli intravedeva nella dottrina cattolica stessa, per una sua riformulazione sempre più adatta al servizio dell’uomo.
Sul giusnaturalismo
Nella “Lettera aperta ai membri del Consiglio Centrale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani” aproposito del matrimonio cattolico egli affermavache “ogni battaglia politico-culturale a favore della “famiglia” e del Matrimonio” tradizionali appare di principio votata alla sconfitta, non per la carenza o per l’insufficienza di argomenti razionali di merito, ma per l’incapacità della cultura giusnaturalistica (e di quella cattolica in particolare) di ottenere ascolto nel mondo secolarizzato.” Egli si chiedevacome dovessero agire coloro che ritenevano che matrimonio e famiglia non fossero mere dinamiche culturali storicamente condizionate, ma strutture antropologiche fondamentali e quindi irrinunciabili?E ancora “Come devono impegnarsi coloro che ritengono antropologicamente inconsistente il fondamento meramente affettivo delle relazioni coniugali e ritengono doveroso impegnarsi politicamente per smascherare un simile equivoco?”.
Rispondeva sottolineando molto efficacemente due punti “dobbiamo tutti prendere atto che tra il matrimonio sacramento, che si è consolidato nei secoli secondo l’insegnamento della Chiesa, e il matrimonio civile che è stato instaurato in Europa a partire dalla Rivoluzione francese non esiste più alcun nesso analitico. Matrimonio è diventato termine equivoco” E aggiungeva “L’ipotesi che il nostro paese possa restare immune dal “contagio”della secolarizzazione del concetto di matrimonio, combattendo battaglie contro il progressivo affermarsi di legislazioni secolariste, mi sembra non solo ingenua, ma rischiosa perché si tratta di battaglie destinate alla sconfitta e che implicano l’accumulo prima e la dispersione poi di tante forze ed energie, che andrebbero utilizzate sapientemente. Non è battendosi per una del tutto improbabile neo–matrimonializzazione giusnaturalistica della società che si combatte la secolarizzazione”.
Si chiedeva allora come essa dovesse essere affrontata la questione e rispondeva “Risemantizzando il giusnaturalismo. Ma questa affermazione non può essere ritenuta un progetto, perché le vie nuove del pensiero non sono programmabili, ma, quando si manifestano appaiono a posteriori l’effetto di una speciale grazia di Dio”. E ancora aggiungeva “La sostanza della questione è allora riassumibile in questi termini, che riprendo dalla prolusione con la quale il Card. Bagnasco, citando il Concilio Vaticano II, ha aperto il 25 gennaio la sessione invernale del Consiglio permanente della CEI: è compito dei laici cristiani iscrivere la legge divina nella vita della città terrena”.
Concludeva affermando che la via migliore per raggiungere questo obiettivo fosse il riconoscere che il giusnaturalismo “ha fallito nel suo progetto plurisecolare di trasformazione della rete delle relazioni interpersonali in sistema di regole. Le regole, in quanto espressive di una pur nobilissima legislazione morale, inducono a percepire l’umanità come soggetto collettivo, indifferente alla sconfinata varietà delle sue emergenze individuali, come un unico omogeneo agente razionale morale e non –come piuttosto dovrebbe essere – come pluralità di soggetti aperti, unici, irripetibili, dominati non dalla necessità, ma dalla contingenza. Il diritto naturale classico tende, per sua natura (come peraltro il diritto in generale) a ridurre al minimo la contingenza o addirittura a considerarla un avversario da controllare”.
Il Filosofo faceva, in conclusione del suo scritto,riferimento alla parabola del Buon Samaritano, che aveva soccorso la vittima dei briganti, non applicando premeditati e austeri e severi principi etici, ma per la commozione che scaturiva da un incontro imprevisto e imprevedibile con uno straniero, nel quale si rivelava la comune umanità euna urgenza esistenziale del soccorritore e della vittima. D’ Agostino ci offriva una conclusione dettata dalla più genuina carità cristiana sia pure partendo da presupposti teoretici inoppugnabili.
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Sulla Prudentia iuris.
Per intendere in modo esaustivo il pensiero giuridicodel filosofo romano occorre fare riferimento alla sua comunicazione contenuta nella Relazione introduttiva all’Assemblea dei Delegati UGCI sul tema “Il Giurista cattolico e le sfide del presente”tenuta a Venezia il 30 giugno 2017. La relazione del filosofo ha il titolo “Prudentia iuris oggi”.
D’Agostino esordiva affermando che Prudentes per antonomasia, i giuristi romani, percepivano come loro dovere impegnarsi nella conoscenza sapienziale della realtà per poterla orientare secondo giustizia. Aggiungeva “in tal modo essi, consapevolmente, si ponevano come artefici del diritto, altro non essendo a loro avviso lo jus se non l’obiectum justitiae.Questo paradigma ha retto per secoli, fino a quando non ha ceduto all’infausta pressione di un paradigma radicalmente alternativo, di carattere politico, che, esaltando la dimensione volontaristica del diritto, cioè appiattendo lo jus sulla lex, ha tolto qualità giuridica (ha degiuridicizzato) l’idea di giustizia (lasciando ad essa tutt’al più una valenza esclusivamente morale) ed ha trasformato l’intelligenza giuridica da esercizio prudenziale al servizio della realtà in un esercizio meramente esegetico, al servizio della volontà normativa del sovrano”
Affermava D’Agostino che del nuovo paradigma i giuristi cattolici erano arrivati ben presto ad apprezzare i vantaggi, trasformandosi inconsapevolmente nei più positivisti tra i positivisti, nell’illusione (nobile, ma ingenua e vana) “che il loro riferimento costante e prioritario alla lex divina e all’indiscutibile primato di questa sulla lex humana fosse sufficiente a giustificare l’abbandono della categoria della prudentia classica e la sua sostituzione con una devota e docile sottomissione alla sovranità del legislatore (legislatore, a suavolta, molto interessato a trasformare i giuristi da difensori dell’oggettività della giustizia in consiglieri privilegiati del principe”.
Aggiungeva il perspicuo autore, che il positivismo cattolico non si fosse fermato nemmeno di fronte alla categoria del diritto naturale, che da oggetto della giustizia naturale era stato rielaborato come sistema normativo, cioè come un insieme già costituito di regole, che si imponevano a priori al soggetto morale. Diceva il filosofo del diritto “Questa imposizione aprioristica ha liberato i giuristi di tanta parte della loro fatica dottrinale, che è venuta a risolversi in un continuo e poco meditato appello ad una pretesa (e spesso inverificabile) volontà normativa della natura (copertura, il più delle volte di ideologie e condizionamenti culturali)”.
Il filosofo romano diceva che nuovi inconsistenti paradigmi venivano proposti e rapidamente sostituiti da altri paradigmi e che “ i più accreditati, oggi, sono quelli che tradiscono (più o meno consapevolmente) il dogma positivistico della separazione tra diritto e morale e per fondare i sistemi giuridici, fanno riferimento a sistemi valoriali : alludo a quelli di derivazione costituzionale (particolarmente apprezzati negli USA, dove hanno portato alla costituzione dell’ingenua prospettiva del c.d. Patriottismo costituzionale) o a quelli da riferire al sistema dei diritti umani fondamentali, pensati si come valori, ma come valori da leggere in chiave pluralistica e pertanto depurati da qualsiasi fondamentoteologico”
D’Agostino nello scritto sottolineava che dapprima i giuristi cattolici si erano trovati a loro agio in questo nuovo paradigma, a seguito di un grosso equivoco,ritenendo a torto che il tema dei diritti umani fosse la formulazione moderna del tema classico del diritto naturale. Ciò aveva costituito un errore molto grave, perché il diritto naturale classico aveva un carattere oggettivo, mentre il sistema dei diritti umani possedeva un carattere spiccatamente soggettivo. Ci si era accorti quindi che essi avevano un carattere così spiccatamente individualistico, da far ritenere non inadeguata l’espressione di “diritti insaziabili”.
Vi si ricomprendevano pretese inaccettabili per l’antropologia cristiana: dal divorzio all’aborto, da quella della legalizzazione delle sostanze da abuso a quella della maternità surrogata, da quella del matrimonio gay a quella della omogenitorialità “ma soprattutto in questo novero è stata inserita l’idea dell’insindacabilità morale e sociale delle scelte di vita personali: un’insindacabilità che ha aperto la via al relativismo valoriale che caratterizza il nostro tempo”.
Oggi invece “l’appello alla legge di Dio va sostituito con il buon uso della prudentia, cioè con un’argomentazione che parta dalla lettura sapienziale e quindi universalmente comunicabile (anche ai non credenti o ai fedeli di altre confessioni religiose). Non si tratta, si badi bene, di escludere Dio dalla vita e dal pensiero giuridico: chi sia convinto che la realtà che siamo chiamati a comprendere tramite la prudentia e su cui dobbiamo operare, sia voluta da Dio e dalla sua saggezza misericordiosa, sarà parimenti convinto che l’esercizio della prudentia ha bisogno della preghiera, anzi che esso è una dimensione della preghiera”.
Il filosofo concludeva con due affermazioni “non siamo chiamati come giuristi a ricordare ai consociati il doveroso rispetto delle regole cui essi sono chiamati dal sovrano, ma a dare risposta nonpolitica ma giuridica, al bisogno di giustizia che pervade il mondo” e ancora aggiungeva “ evitiamo di sprecare il nostro tempo nell’attacco a un mondo decadente, elaboriamo piuttosto nuove dimensioni propositive: è questo ammonimento di Amoris Laetitia (§ 36) quello che deve guidare il nostro operato quotidiano di giuristi”.
Sulla bioetica cristiana.
Molto importante per delineare le idee del filosofo romano sul tema di cosa debba considerarsi per bioetica cristiana è la comunicazione e il suo intervento nel dibattito, svolti al Convegno “Malattie degenerative e problematiche del fine vita Aspetti Medici e Bioetici “in S. Giovanni Lupatoto (VR) presso la “Fondazione Pia Opera Ciccarelli”, il 14 febbraio 2020; non ne esiste una trascrizione stenografica per cui mi affiderò a degli appunti riassuntivi.
D’ Agostino sottolineava innanzitutto che la malattia fosse un problema dell’uomo: gli animali decedono,ma non percepiscono il morire. Egli affermava chela morte era un problema antropologico; nella teoria darwiniana rappresentava un esito della evoluzione:sopravvivono i più forti. La morte come la nascita per il darwinismo erano eventi funzionali. Il filosofo invece affermava che se ne dovesse considerare precipuamente la natura antropologica. Invece lo statuto della medicina era cambiato. Per la medicina Ippocratica che aveva basi scientifiche, poiché aveva confutato gli approcci magici, il compito del medico era capire le alterazioni naturali che provocavano la malattia intesa come squilibrio della identità umana
Il medico doveva correggere lo squilibrio e in questo senso elargiva la terapia. La modernità invece si affermava come connotata dall‘avvento della scienza come sapere funzionalmente orientato. La natura nei classici era concepita come categoria metafisica non assimilabile alla fisica che costituiva invece l’essenza delle scienze moderne. Prevaleva nella scienza moderna “il costruzionismo biologico” il bios poteva essere ricostruito secondo il desiderio dell’uomo; l’occhiale consentiva di vedere meglio, la gamba di legno non guariva la mutilazione ma certamente faceva camminare. Si era affermata la medicina funzionale: la fecondazione assistita non poteva essere considerata una terapia, chi era sterile rimaneva sterile, anche se riusciva ad ottenere un bambino. Ciò era possibile così non solo ad una coppia, ma anche ad una donna sola o ad un uomo solo.
Un figlio in provetta non era un figlio biologico, manato per la volontà dell’uomo di essere riconosciuto come padre. Il non malato o il non paziente ora andava dal medico per ottenere il miglioramento delle sue prestazioni, come nella medicina sportiva in cui il medico potenziava le prestazioni fisichedegli atleti o nella medicina estetica in cui il pazienteera reso più bello e attraente. La medicina funzionale eliminava il soma, il compito del medico non è più terapeutico.
D’Agostino sottolineava che il funzionalismo di per sé era neutro, ma che se non gli si attribuiva una dimensione di “senso” rimaneva gelido. Il problema del funzionalismo era che il medico considerasse il malato in modo iper-specialistico come un insieme di organi scollegati tra di loro. Con forza invece il filosofo sottolineava che era necessario prendere in carico una immagine unitaria dell’uomo, che non poteva che esser considerato come unità psicologica.
D’Agostino concludeva dicendo che ai Cristiani non a caso, era stata promessa la “resurrezione nelcorpo” e a questo proposito citava un passo di S. Tommaso; ciò perché gli uomini anche dopo la resurrezione avrebbero continuato a comunicare tra loro e con Dio attraverso la corporeità. Il medico più che degli organi, doveva curare le persone.
L’illustre professore stigmatizzava quindi la circostanza che la bioetica si fosse trasformata in bio–giuridica facendo riferimento, come caso limite,alla legge Canadese del Quebéc in cui era stato legalizzato il suicidio assistito, finalizzato anche a reperire organi per il trapianto. Il filosofo affermava che il trend dell’età moderna era quello di giuridicizzare l’etica e invece che il diritto non poteva fare da puntello all’etica ma soltantogarantire la coesistenza sociale.
In una lettera ad una iscritta della UGCI, sul caso Charlie, sottolineava che “ Il lavoro dei bioeticisti è anche quello di orientare il sentire collettivo, non esasperando l’emotività delle masse, ma cercando di educarle (il verbo è sgradevole lo so) al buon uso della ragione, anche quando questo buon uso ci induce ad accettare come doverose scelte tragiche (e sospendere un accanimento terapeutico su di un neonato è tra le scelte più tragiche che si possano adottare) Aggiungo che abbiamo tutti il dovere di impegnarci per un buon uso della ragione bioetica, perché il futuro che ci aspetta è oscuro : il progredire vorticoso della biomedicina ci minaccia tutti e dovremo tutti riflettere seriamente sul fatto che una medicina priva di scrupoli e di sensibilità bioetica si sta configurando come la massima forma di speculazione possibile e immaginabile in ordine alle vicende di fine vita.” .
Conclusioni
Mi rendo conto che è difficile offrire una ricostruzione esaustiva di un filosofo, attraverso l’analisi parziale di alcuni suoi scritti e nell’immediatezza che la sua vicenda umana suggerisce. Dovranno essere soprattutto gli allievi e coloro che l’hanno frequentato e apprezzato per motivi professionali a fornire in futuro una esegesi completa del suo pensiero, del suo apparato metodologico e della sua gnoseologia. Mi sembra però che alcune conclusioni parziali possano essere delineate.
In D’Agostino, (si veda lo scritto sulla “prudentia iuris”) è presente una interpretazione del ruolo del giurista e del diritto, di matrice antipositivista e anti– formalista. Nello scritto che ho citato vi è un chiaroriferimento al filosofo tedesco Carl Schmitt che di questa derivazione era uno dei rappresentanti. Nel filosofo romano si rinviene la necessita di affermareuna disconnessione “tra idea ed empiria”; in questo D’Agostino accetta le aporie della “modernità” e al centro di essa vi si pone.
La differenza rispetto alla genealogia Schmittiana è che D’Agostino non ha evidenziato l’origine e gli esiti drammatici “del politico” e della sua maggiore espressione “il giuridico” sottolineando invece il rapporto interno tra norma e valori. Probabilmente per motivi storici (lo ricorda Ventura nel suo articolosul Corriere della Sera citato all’inizio, facendo riferimento al suo essere nato nel 1946, mentre erano in corso i lavori della costituente repubblicanaitaliana) ma anche per la sua formazione culturale profondamente legata al magistero della Chiesa di Roma.
Il pensiero del giurista concilia le categorie classiche della filosofia del diritto, attraverso una autentica “pietas cristiana” con il moderno, con le istituzioni repubblicane, con il nuovo Stato che in Italia si è andato faticosamente affermando. Questo approccio metodologico non positivista (anzi del positivismo il filosofo romano aveva denunciato con forza le contraddizioni) ma positivo, sarà portatore di “fecondità” per il pensiero filosofico, per lo stesso “magistero”, per il ruolo del giurista nella società italiana proponendo frutti anche per il futuro.
Come avvocati e giuristi cattolici ci mancherà il suo consiglio, la sua capacità di ascolto, di organizzare al meglio la nostra associazione, ma soprattutto la sua riflessione dottrinale nei convegni e negli incontri e il suo afflato umano.
CESARE AUGUSTO PLACANICA