Il danno da demansionamento non è sempre in re ipsa.
Come noto, al lavoratore illegittimamente demansionatol’ordinamento riconosce una duplice tutela: la reintegra nelle mansioni precedentemente svolte ed il risarcimento del danno sia patrimoniale sia non patrimoniale.
Con riferimento alla richiesta risarcitoria, la giurisprudenza più risalente considerava il danno da dequalificazione come un vero e proprio danno in re ipsa, risarcibile cioè a prescindere dalla prova dell’effettiva lesione. Secondo la giurisprudenza più recente, invece, “dall’inadempimento datoriale non deriva automaticamente l’esistenza del danno” e di conseguenza “il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento professionale, biologico o esistenziale non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo” (si veda, ex multis, Cass., sez. lav., 20 giugno 2019, n. 16595; Cass., sez. lav., 5 dicembre 2017, n. 29047; Cass., SU, 24 marzo 2006, n. 6572).
Sulla scorta di tale orientamento, il Tribunale di Milano in una recentissima sentenza (Trib. Mi., sez. lav., 8 giugno 2022, n. 1499, dott.ssa Moglia), dopo aver accertato il demansionamento subito dal lavoratore rispetto a quanto pattuito in un verbale di conciliazione sottoscritto in sede sindacale, rigettava la domanda relativa al risarcimento dei danni perché formulata in maniera generica e priva di prova.
Nello specifico, tra le parti era già intervenuto un verbale di conciliazione in sede sindacale ai sensi del quale l’assegnazione del lavoratore poteva «essere modificata […], anche in via temporanea, in ragione di esigenze tecnico operative concordate per iscritto». Ciò nonostante, il lavoratore (un vigilante) veniva assegnato al servizio di piantonamento, con privazione del suo ruolo di coordinatore di altre risorse, senza un suo consenso scrittoe si ricorreva al Tribunale del lavoro chiedendo le conseguenti tutele ed il risarcimento dei danni patiti e patiendi.
La società si costituiva giustificando tale demansionamento con la decisione di riorganizzare l’azienda e sopprimere la pattuglia a lui affidata richiamando l’art. 2103, second comma, cod. civ. dove si legge «in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale».
Tuttavia, come dimostrato dal ricorrente, non era stata attuata una vera e propria soppressione, bensì una semplice ridenominazione della pattuglia con conservazione della medesima zona di servizio; inoltre, come ammesso dalla società convenuta, «l’ambito di clienti serviti dalla seconda è più ampio di quello della prima». Pertanto, il giudice meneghino riteneva illegittima la nuova assegnazione, e condannava la società datrice di lavoro «a riassegnare il ricorrente alle mansioni ed all’orario concordati od a mansioni equivalenti (comunque ad una pattuglia diurna più vicina a casa)».
Per quanto atteneva, invece, la domanda di risarcimento dei danni,il Tribunale milanese riteneva che il ricorso del ricorrente «offre deduzioni molto generiche». Infatti, «secondo un orientamento costante della Suprema Corte, è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che costituiscono oggetto di tutela costituzionale, da accertarsi in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti. In ogni caso, la relativa prova spetta al lavoratore, il quale tuttavia non deve necessariamente fornirla per testimoni, potendo anche allegare elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (cfr. Cass. n. 19923/17; Cass. n. 24595/19)». Invece, il ricorrente si limitava «ad indicare di aver […] svolto mansioni di coordinatore di un numero di risorse fino a 22 unità», senza specificare «un riferimento temporale preciso, un’indicazione precisa delle risorse». Generico era anche il riferimento al danno alla vita di relazione, in quanto il lavoratore «al fine di ottenere un ristoro dei danni pari alla compromissione delle sue relazioni con la moglie e le figlie, avrebbe dovuto meglio indicare quali attività svolgeva con loro che ora non può più svolgere, quali momenti in loro compagnia non ha più potuto vivere, quali incombenze non sia stato più in grado di svolgere». Lo stesso dicasi per il danno al suo ruolo sindacale: «sul punto, il ricorrente offre deduzioni molto generiche, limitandosi a lamentare che l’essere da solo a svolgere il piantonamento ha reso impossibile mantenere i contatti con i colleghi e quindi espletare la sua attività di rappresentante sindacale. A riguardo, il ricorrente avrebbe però dovuto indicare in che cosa consistesse il suo ruolo mentre era addetto alla pattuglia, in che modo e quando svolgesse la sua attività sindacale, dovendo escludere che lo potesse, legittimamente, fare mentre era in servizio di perlustrazione». In sintesi, il Tribunale rigettava la richiesta di condanna della società resistente al pagamento di una somma a titolo di risarcimento dei danni esistenziali conseguenti al comportamento posto in essere dal datore di lavoro poiché, tenendo conto delle deduzioni del ricorrente e dei principi enunciati dalla Corte di Cassazione, mancavano «le necessarie allegazioni e deduzioni alle quali il ricorrente era onerato».
avv. Nicola A. Maggio
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