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    Non sarà la spesa pubblica a salvarci

    Repubblica riporta che, nelle segrete stanze di Villa Pamphili, siano risuonate imperiose alte parole nei controsoffitti del destino: spendete! La spesa pubblica è la vostra unica speranza di salvezza!

    Essendo un retroscena non possiamo attestarne la veridicità, ma non dubitiamo della verosimiglianza. E, c’è da temere, non c’è da fidarsi nemmeno delle possibilità reali che questa volizione risolva qualcosa. Anzi.

    La spesa pubblica, in teoria, serve per superare i momenti di contrazione economica. Sono le cosiddette politiche anticicliche. Se l’economia privata, per mille ragioni, non gira interviene lo stato. Che fa strade, ponti e case pubbliche stimolando il privato.

    Il quale, classicamente visto come un bue (e secondo Tridico, presidente INPS, un bue particolarmente pigro ed infingardo) rumina lentamente e si rimette in marcia sperando in nuova biada fresca. Qui, però, il problema è un filino differente.

    Non abbiamo smesso di produrre perché la gente ha deciso di risparmiare, temendo una congiuntura sfavorevole. Qui abbiamo smesso di produrre causa decreto governativo. E continuiamo a produrre poco perché alcuni settori divenuti sempre più preminenti (turismo, ristorazione e divertimento) sono in ginocchio. Sempre ope legis. Vista la situazione la gente, che stupida non è, ha iniziato a risparmiare. Se tu versi liquidità, chi non è in situazione di estrema necessità ti ringrazierà, annuirà e continuerà a non spendere.

    Un esempio plastico è quello dello smart working. Sui pasti in ufficio campa una intera filiera. Qui si impone una riflessione: vogliamo che il lavoro da remoto si imponga o vogliamo salvare i negozi? Se scegliamo la prima è perfettamente inutile sussidiare i secondi. Così come non ha senso fornire, in ipotesi, dei voucher per buoni pasto statali da consumare al bar. Sono soldi letteralmente buttati. Ma qui, qualcuno, potrebbe dire: hai ragione, per questo ci vuole un piano industriale nazionale serio, pluriennale e pensato per decidere dove investire.

    Potrebbe anche essere, non lo escludo. Ma questi piani funzionano di rado, spesso sono scelte politiche che cercano di ammaestrare la realtà, fallendo. Quando riescono sono pleonastici, aprendo porte già aperte, con enormi dispendi di risorse più utilmente lasciate nelle tasche degli Italiani. Ecco, quindi, l’altra idea del Governo: tagliare le tasse. Qui ci avviciniamo, anzi cogliamo il punto. Ma da chi partiamo?

    Ecco una modesta proposta: tagliamo le tasse a chi produce. So di non brillare per originalità, ma non è un concorso di idee. È la realtà e la realtà dice che le cose che funzionano andrebbero ripetute. Tagliare le tasse alle imprese, ai lavoratori, alle partite IVA ed agli artigiani è il modo migliore per creare valore, a patto che si accetti, contemporaneamente, un’altra clausola.

    La spesa pubblica va tagliata. Non per austerità. Non per fare tornare i conti. E nemmeno perché ce lo chiede l’Europa. Va tagliata perché questi aiuti sono temporanei, ma il danno del sussidio diffuso è permanente. In Usa, appena riaperte le attività l’occupazione ha fatto un balzo. Da noi lo ha fatto l’inattività. È un problema devastante di diverse attese: qui aspettiamo qualcuno che ci mantenga. E bisogna, con decisione, impedire che questa aspettativa si innesti stabilmente.

    Meno tasse a chi produce, quindi. E meno privilegi a chi non lo fa. Il che riguarda, senza false timidezze, sussidi, prebende, bonus (dal monopattino in giù) e in prospettiva il sistema pensionistico. Questo ci può salvare. E, per un simpatico gioco di specchi, era esattamente la stessa ricetta che ci avrebbe salvato prima del Covid. Perché, dopotutto, la realtà non si è ammalata e risponde sempre alle medesime logiche. Dentro e fuori Villa Pamphili.

    Luca Rampazzo

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