Governo e sindacati hanno avanzato proposte diverse in merito alla modifica del sistema pensionistico. Vediamole.
Nel confronto tra governo e sindacati, uno degli argomenti più scottanti è il futuro del sistema delle pensioni italiano. Palazzo Chigi ha chiaramente fatto sapere di voler riformare tale sistema ma il tempo stringe dal momento che il 31 dicembre del 2021 terminerà la sperimentazione di Quota 100.
Le parti sociali guardano con favore a un meccanismo flessibile in uscita, un’idea che convince anche la maggioranza. Per il momento, tra le ipotesi sul tavolo, quella che ha fatto più notizia è la possibilità, gradita a una parte della maggioranza, di andare in pensione dai 62/63 anni di età o dopo aver raggiunto almeno 36/37 anni di contribuzione. Tale sistema prevederebbe una necessaria penalizzazione del trattamento di circa il 3% per ogni anno d’anticipo rispetto al limite di età che attualmente è di 67 anni.
I sindacati tuttavia preferirebbero Quota 41, cioè far iniziare il trattamento pensionistico nel momento in cui il lavoratore ha raggiunto il 41esimo anno di contributi.
Entrambe le proposte si scontrano però con un fatto imprescindibile: non si può più riformare il sistema delle pensioni sconquassando le finanze pubbliche. Per questo motivo il governo, con il suo Programma nazionale di riforma, ha fatto sapere all’Europa che l’intervento sulle pensioni avverrà in un’ottica di sostenibilità di lungo periodo al fine di limitarne il peso sul debito pubblico che è esploso con la pandemia.
La Commissione Europea ha infatti chiarito più volte che i soldi del Recovery Fund devono essere usati per realizzare investimenti strutturali e non per aumentare la spesa corrente o per finanziare progetti non utili ai fini della crescita del Paese nel medio periodo. Va ricordato infatti che, data la situazione demografica italiana, il sistema pensionistico da molti anni drena una quantità ingente di risorse che toglie spazio ad altre forme di spesa.
Simone Fausti