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    Hacker russi e punteggiatura italiana. Apologia della sintassi sul lavoro.

    Qualche giorno fa ricevo una email speciale. E’ mio figlio, in uno dei suoi primi timidi tentativi di usare Gmail. L’oggetto contiene solo la parola “attenzione”. Il messaggio fa più o meno così:

     

    Ciao. Fai molta attenzione.
    Sono un hacker. Russo.
    Ti sto controllando.

     

    Mio figlio, impaziente, dieci minuti più tardi mi viene a chiedere se avessi ricevuto un’email. Se l’avessi letta. Se per qualche strana ragione fossi preoccupato. Rispondo che una mail l’ho ricevuta. Che non sono preoccupato. Un tizio mi scrive in forma anonima di essere un hacker. E di russare. Perché dovrebbe intimorirmi un hacker che russa? A quel punto mio figlio, un po’ deluso ma anche divertito dalla mia interpretazione, capisce di aver fatto un errore di battitura (il punto tra “hacker” e “russo”).

     

    Però M. è mio figlio. Un bambino che frequenta le scuole elementari. Per le prime volte alle prese con con un’email. Insomma, le giustificazioni le ha tutte. Anche quella di aver deciso che l’hacker doveva essere russo, piuttosto che italiano, greco o irlandese. Quando però a fare errori simili sono i grandi, in azienda, e con ruoli connessi alla comunicazione, la cosa è diversa. Anzi, è semplicemente più grave. Molto più grave. Vi faccio un esempio. Un esempio vero.

     

    Buongiorno,

    dopo la nostra calls, abbiamo fatto un debriefs, abbiamo una soluzione per voi.

    Lei sono sicuro che vorrà sapere di cosa si tratta e sarei contento di spiegarle tutto a voce.

    Dimmi, quando possiamo sentirci?

    Grazie.

     

    L’autore si chiama L., ha 35 anni. Un sedicente Communication Manager di una nota multinazionale. E’ una figura ibrida: un junior che sta diventando senior, ma viste le email il processo di “seniorizzazione” (passatemela) avrà qualche rallentamento. Senza dubbio. Prendiamocela con chi l’ha assunto, diranno in molti. Ma se cambi gli addendi, il risultato non cambia: l’email sarebbe stata pessima in ogni caso. La punteggiatura latita, l’inglese è ingombrante con tutti quei plurali e, last but not least, il cambio di persona (dai lei a tu) in tre frasi è piuttosto audace. Non pensiate che mi stia inventando tutto. L’ho scritto sopra; è tutto vero. Di email simili ne ho lette diverse. Troppe.

     

    Una lingua ha delle regole. Le sue regole. Non possiamo cambiarle, altrimenti diventano interpretazioni. Quelle regole servono per convenzione a due persone per comunicare. Se la comunicazione è difettosa, la comprensione è difettosa. Se la comprensione è difettosa, la comunicazione non è efficace. Se L. (quello della mail imbarazzante) desiderava presentarmi un’offerta o vendermi un servizio, non ci è riuscito. Non è nemmeno riuscito a catalizzare la mia attenzione. Difendiamo la nostra lingua, qualunque essa sia, e il percorso che ogni lingua ha fatto per generare vocaboli, sinonimi e contrari. Se i Fenici perfezionarono l’alfabeto consonantico, non lo fecero solo per formare buoni venditori di porpora da sguinzagliare nel Mediterraneo. Pensarono anche al cross selling con il legno di cedro. Senza conoscere l’inglese, senza mandare email.

     

    Quello che intendo dire è che alla base di qualunque relazione, anche professionale, c’è la comunicazione. Se leggi e scrivi correttamente la tua lingua metà del lavoro è fatto. Riuscirai ad essere compreso, riuscirai a concludere trattative, riuscirai a far comprendere le tue intenzioni al tuo team, saprai essere chiaro. Padroneggiare una lingua, di solito, fa questo effetto.

     

    A quel punto, al termine della call alla quale ha fatto seguito un debrief piuttosto approfondito, mr. L. riuscirà a presentare la soluzione al cliente, magari convincendolo ad acquistare un determinato prodotto o servizio. Così l’economia gira. Soprattutto quella ingessata post-Covid che avrà ancora più bisogno di comprensione e comunicazione.

     

     

    Marco Menoncello

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