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    Covid: lo spopolamento delle grandi città

    Un nuovo studio del Sole24Ore rivela un trend di abbandono delle metropoli italiane, con qualche eccezione. Come recuperare attrattività?

     

    L’urbanizzazione è stata una dei grandi processi che ha trasformato gli Stati nei secoli scorsi. Una dinamica dalle tante sfaccettature che in Italia ha trovato una particolare declinazione generando importanti centri urbani in alcune regioni, seppure di grandezza decisamente più contenuta rispetto alle metropoli americane e asiatiche. Eppure da qualche anno si osserva un trend opposto che ha trovato un’accelerazione a causa della pandemia.

    Secondo uno studio del Sole24Ore realizzato su dati Istat, da gennaio a ottobre 2020 sono crollati i trasferimenti di residenza nelle grandi città italiane. Nelle 15 città metropolitane della Penisola, vive il 16% della popolazione e, a parte Milano e Bologna, dal 2015 i residenti continuano a calare: -2,4% in media nel quinquennio ottobre 2015-ottobre 2020.

    Il covid ha dato nuovo impulso a questo trend. La maggior parte dei cittadini all’improvviso si sono ritrovati chiusi in casa, costretti allo smart working. Un fattore che ha pesato sulle condizioni di vita e sugli spazi abitativi, tipicamente più ridotti nelle grandi città. Ma c’è anche un altro fattore: nelle grandi città circola un alto numero di persone e in tempi di pandemia questo significa una maggiore concentrazione dei contagi. Dallo scoppio della pandemia fino ad ottobre 2020, nelle città metropolitane si è verificato un aumento dell’8,9% dei decessi.

    Questi sono solo alcuni dei fattori che spiegano l’abbandono delle grandi città. Come rilanciare l’attrattività di tali luoghi? Le opportunità lavorative un tempo erano uno dei fattori principali così come l’offerta universitaria. Tuttavia, nel momento in cui alcune occupazioni rischiano di trasformarsi definitivamente in lavori svolti in forma agile o smart secondo il ritornello “mi basta un computer e una connessione per lavorare”, ecco che allora che viene meno quell’elemento legato all’idea “le migliori opportunità di lavoro si trovano nelle grandi città” e considerato cruciale fino a poco tempo fa. Un ragionamento applicabile solo ad alcuni ambiti e comunque non totalizzante.

    Altri fattori infatti hanno contribuito in passato ad affollare le grandi città. A Milano per esempio, oltre agli investimenti per garantire una comoda mobilità cittadina (perlomeno all’interno della circonvallazione), l’offerta culturale, di svago, di eventi e di fiere ha contribuito nel tempo ad arricchire il fascino del capoluogo meneghino. Tutte attività costrette a una lunga sospensione a causa del covid.

    Emblematico su questo versante è il caso di Fiera Milano. Ieri l’AD Luca Palermo ha presentato il piano strategico 2021-2025 il quale prevede una necessaria ristrutturazione rispetto all’impostazione pre-pandemica. Al momento l’incertezza regna sovrana dal momento che un’industria come quella fieristica, che produceva un miliardo di ricavi, ha perso l’80% delle entrate nel 2020.

    Ma Palermo cerca di guardare oltre le avversità del 2020 e gli ostacoli attuali. L’obiettivo è quello di rafforzare il ruolo di Fiera Milano quale partner strategico delle imprese nei processi di innovazione e crescita. Nel 2020 infatti la posizione finanziaria netta è risultata in territorio negativo di 24 milioni di euro eppure la speranza è quella di poter rimettersi in moto già prima dell’estate. Grandi aspettative sono riposte nel Recovery dal momento che sui ristori è in corso “una fase di confronto attivo con il mondo politico” e Palermo si aspetta a breve una interlocuzione con il governo Draghi.

     

     

    Simone Fausti

     

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