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    Milano, crisi Covid: 567 bar hanno abbassato la serranda nel 2020

    Il rapporto del Centro studi della Fipe registra un preoccupante impatto della crisi sui pubblici esercizi anche nel più ampio quadro lombardo. La federazione: “Servono un cambio di passo e una prospettiva certa e ravvicinata di riapertura”.

    Che la pandemia avesse messo a dura prova bar e ristoranti è ormai cosa risaputa, ora però arrivano i dati del rapporto annuale del Centro Studi della Federazione italiana pubblici esercizi (Fipe, ndr) di Confcommercio a confermare il grave quadro di crisi in cui versano, in particolare, bar e locali senza cucina milanesi.

    Tra Milano città e provincia nell’annus horribilis della pandemia le attività con codice Ateco 56.3, ovvero bar e caffè – senza cucina –, che hanno abbassato per sempre la serranda si attestano a 567. Non solo, la situazione di instabilità economica ha frenato il rischio imprenditoriale, provocando un drastico calo di nuove attività nel settore. Nel 2020 soltanto 166 imprese hanno visto la luce, contro le 288 dell’anno precedente, portando così ad un saldo negativo di 401 attività. Non va meglio nemmeno nel più ampio scenario lombardo, dove a fronte di 622 nuove iscrizioni, si registrano 1.778 cessazioni per un saldo di -1.156 attività.

    A risultare maggiormente in difficoltà sono i pubblici esercizi collocati a Milano città, che scontano i costi fissi più elevati, in particolar modo quelli relativi agli affitti. Epam, l’organizzazione di rappresentanza delle imprese di pubblico esercizio di Milano e provincia che aderisce a Confcommercio e Fipe, ha sottolineato come i proprietari degli immobili in centro città siano meno propensi a ridurre il canone d’affitto ai gestori dei locali data l’attrattività della zona e la conseguente facilità a rimetterli sul mercato, mentre la situazione cambia in periferia e nella provincia milanese, dove invece c’è una maggiore disponibilità alla contrattazione per non correre il rischio di lasciare sfitto l’immobile troppo a lungo.

    E se il 2020 si è chiuso con una preoccupante morìa di pubblici esercizi, il 2021 rischia di far registrare dati ancora più allarmanti. Per questa ragione la Fipe ha scritto al premier Draghi una lettera-appello nella quale si chiede di “consentire al settore di contribuire ad una vita più sana del Paese, coniugare sicurezza e salute è possibile”. Solo nelle tre giornate di chiusura nazionale per le festività pasquali, nell’area milanese andranno in fumo 228 milioni di euro di fatturato per le imprese di commercio, turismo e servizi. In particolare, per la ristorazione e i pubblici esercizi è previsto un vero e proprio crollo, con una perdita stimata dell’80% – da 80,6 a 16,1 milioni di euro – secondo i dati dell’Ufficio Studi di Confcommercio Milano, Lodi, Monza e Brianza.

    Servono un cambio di passo e una prospettiva certa e ravvicinata di riapertura, sottolinea la Fipe, ristori, indennizzi, moratorie, sostegno alla liquidità, ammortizzatori sociali, insieme a sgravi fiscali adeguati e urgenti, sono necessari per l’economia del Paese, ma non sufficienti per ripartire. Per questo è opportuno consentire alle imprese di rimanere aperte, almeno a quelle che possono garantire maggiore sicurezza e distanziamento grazie alla disponibilità degli spazi e, se necessario, definire protocolli di sicurezza rafforzati. Ma la parola d’ordine è e dev’essere “apertura”.

    Micol Mulè

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