Un libro sulla storia di Andrea Soldi, morto per un Tso
Il 5 agosto 2015 la città è caldissima, qualcuno è già in vacanza, altri cercano un po’ d’aria nei giardini del quartiere. Anche Andrea Soldi è seduto su una panchina, ma quella è la “sua” panchina sempre, in ogni stagione. Lì si rifugia quando i pensieri lo assalgono, lì trova conforto e si sente a casa. Andrea soffre da anni di schizofrenia, la madre, il padre e la sorella sono il suo sostegno e piazza Umbria il posto del cuore. Ha quarantacinque anni, non è violento, non è mai stato pericoloso, eppure, quel 5 agosto morirà a causa di un Trattamento sanitario obbligatorio eseguito da alcuni vigili urbani e dal personale medico. Il processo è arrivato ora alla fase d’appello, ma questa forse è la cosa meno importante della storia. Dopo la morte, la famiglia Soldi ha trovato alcune pagine che erano il diario di Andrea in cui la trascrizione lucidissima della sofferenza illumina il percorso psicologico e i silenzi che per anni lo avevano avvolto.
A cinque anni di distanza, da questa vicenda è nato un libro: “Noi due siamo uno”, di Matteo Spicuglia. Spicuglia è un giornalista che ha seguito il caso e che non ha voluto fermarsi alla cronaca: a partire da quel diario ha allargato lo sguardo dalla panchina su cui è morto Andrea alla realtà dei TSO, dalla sua esistenza difficile al mondo della malattia psichica, dalla famiglia torinese alle tante altre che si trovano a convivere con pregiudizi e inadeguatezza dei servizi medici e sociali nella gestione di patologie che soffrono ancora lo stigma sociale. Nel diario Andrea aveva scritto di sperare che la sua fatica e il suo dolore non passassero invano; questo libro è il motivo per cui ciò non avverrà.
Di seguito una parte della lettera scritta dalla sorella Cristina ad Andrea, con cui si conclude il libro: «Oggi la tua panchina è diventata un punto di ritrovo per anime gentili e fragili. E anche chi è più forte non rimane indifferente. Chi passa lascia un fiore o una poesia davanti all’immagine del lupo che tanto ti assomigliava e ti affascinava. Ti dava coraggio imitare il suo verso, come se il lupo fosse più forte delle tue allucinazioni. Mi piace pensare che quell’ululato fosse un segno di libertà per dare voce a chi non ne aveva, prima di tutto alla tua».