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    Quella domanda di giustizia che è rimasta inascoltata e che emerge ora nei giovanissimi

    Quella domanda di giustizia che è rimasta inascoltata e che emerge ora nei giovanissimi.
    L’Europa ha posto quale condizione per il maxi prestito del Piano di Resistenza e Resilienza presentato dal nostro Paese che fosse inclusa la “riforma del sistema giustizia”, più brevemente della “giustizia”.
    Riformare il sistema giustizia è un argomento che torna ricorrente nel nostro Paese sia nel dibattito interno per i molti Governi che negli ultimi 15 anni vi hanno messo mano, soprattutto nell’aspetto dei procedimenti giudiziari, ma anche nel dibattito europeo perché associa la giustizia al nostro Paese per la sua assenza precisamente per la sua non corretta applicazione e quindi per essere un Paese in cui la giustizia è di fatto “mancante”.
    Eppure l’argomento merita di essere ripreso lì dove lo avevano lasciato il Cardinale Martini e il prof. Zagrebelsky in quella “domanda di giustizia”, dove le questioni che oggi ci troviamo ad affrontare sono già presenti, nell’allora futuro prossimo. La prima fra tutte quella posta dal bisogno di giustizia posto all’attenzione di noi tutti: “noi avvertiamo profondamente che la fame e la sete di giustizia, di cui per tutti e non solo per i credenti in Cristo, parla il Sermone del Monte (Mt 5,6 – beati quelli che sono affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati) non sono parole vuote né,tantomeno, un incitamento alla divisione in nome delle ideologie politiche. Spenta del tutto la giustizia, meglio, la speranza di giustizia – e non solo l’egoistica speranza di giustizia per se stessi – l’esistenza stessa è scossa dalle sue fondamenta”. E’ quello che è mancato nella nostra società in questo ultimo decennio è stata la percezione della possibile perdita della speranza di giustizia che non ha scosso la nostra esistenza dalle sue fondamenta; abbiamo invece messo mano a riforme di settore più per pressioni esterne (l’Unione europea in primis, il mercato internazionale a seguire) che per una maturata esigenza nella coscienza collettiva. Una coscienza collettiva che è ormai disabituata a ragionare di giustizia senza trascinare con sé il sistema ordinamentale istituzionale con cui è resa o negata la giustizia nel nostro Paese.
    Ed è vero, infatti, che orami siamo dis–educati alla giustizia, non solo perché abbiamo abbandonato quel modello educativo che prevedeva che già in adolescenza ciascuno di noi conoscesse bene come era organizzato lo Stato a cui apparteneva in quanto cittadino, ma soprattutto perché abbiamo ritenuto che questa conoscenza civile non fosse necessaria e tutt’al più fosse sufficiente supplire con una conoscenza generale del diritto, come se l’etica morale non fosse un “modus vivendi” ma una materia a cui dedicare il tempo residuo dei propri interessi.
    Solo che pensando erroneamente in una crescita costante della popolazione o quanto meno a una riduzione controllata dai nuovi ingressi di altre culture, non abbiamo fatto i conti con la dispersione scolastica e con l’analfabetizzazione di ritorno. Per un Paese che ha investito senza alcun indugio nella leva dell’istruzione quale ascensore sociale per i giovani, ritrovarsi con l’abbandono scolastico che colpisce la scuola dell’obbligo e prevalentemente i territori del Sud senza che questo evento sia percepito dalla coscienza comune come una emergenza a cui porre rimedio, mostra di tutta evidenza a quale livello di “assopimento/addormentamento” siamo giunti.
    Nel futuro del Paese ci saranno classi di giovani che non solo non avranno piena padronanza della lingua, storia, cultura, scienza e progresso tecnologico ma che del loro Paese sapranno poco o nulla se non quello che potrà soddisfare la curiosità personale navigando sui siti di Internet. Di questo stato noi siamo responsabili nella misura in cui noi siamo stati non “giusti” poiché non abbiamo saputo prevedere politiche di istruzione che non comportassero “ingiustizie”, poiché è di tutta evidenza che una ingiustizia è stata perpetrata nei confronti di questa classe di giovani: essi non hanno avuto quella istruzione che le classi precedenti hanno avuto senza alcuno peso economico sulle famiglie per quel diritto allo studio universalmente riconosciuto , che qui nel III° Millennio abbiamo abbandonato come mero argomento di fondo.
    Ed allora ci sovviene la riflessione di Martini e Zagrebelsky: “….la giustizia viene prima della politica; la politica è in funzione della giustizia e non la giustizia della politica. O, se così si vuole dire, l’ingiustizia non può essere il mezzo di nessuna politica, per quanto alto e nobile sia l’idea che questa persegue. E ciò significa che – per riportarci ancora alla questione del dolore inferto all’innocente come prezzo dell’armonia universale- nessuna politica è conforme a giustizia se il perseguimento del suo fine comporta il prezzo dell’ingiustizia, del male causato all’innocente”.
    Poiché siamo dis-educati alla giustizia soprattutto nel renderla, il nostro lavoro non può che ricominciare dove è stato lasciato: rieducarci e educare alla giustizia. Perché anche per noi e per le classi dirigenti del Paese la domanda di giustizia è rimasta sopita nelle coscienze, avendo preferito rispondere con una giustizia intesa come conformità alla legge, e riservando al singolo (e non alla collettività) di rispettare la legge. Così l’elemento etico che sottende il dare/rendere giustizia diventa il solo rispetto della legalità, legalità e non giustizia: e la domanda rimane senza risposta anzi come non posta. “….identificare la giustizia con la legalità significa trasferire i nostri interrogativi di giustizia sulla legge. La legalità a volte, ha poco o nulla a che fare con la giustizia. Inoltre non è affatto detto che la natura sia giusta e giuste siano le leggi”. “ …giungeremmo a designare l’essere umano giusto come colui che sa solo obbedire , esente da libertà e da responsabilità”. Questo è il messaggio che abbiamo trasmesso, nel decennio recente riformando la giustizia, a noi stessi e ai giovani: obbedienti e senza dignità.
    Una riflessione che dobbiamo portare in quella Europa dei diritti e dei doveri che ci invita a una riforma del “sistema della giustizia” che vede solo l’aspetto dell’ordinamento giudiziario (uno per tutti la lentezza del processo quale ingiustizia dello Stato sul cittadino) senza interrogarsi sul suo stesso futuro nell’affrontare e comprendere quale “giustizia” debba essere patrimonio condiviso degli Stati e dell’Europa delle genti dove libertà, giustizia, dignità, responsabilità viaggiano insieme. Un dovere direi per non essere solo il Paese della giustizia ad applicazione lenta se non paralizzata.
    Peraltro i recenti fatti di Colleferro (anni 2020/2021) di violenza dei giovanissimi che portano fino all’omicidio, ciobbligano ad una riflessione sulla violenza dei giovanissimi, violenza che è sintomo della mancanza di conoscenza di strumenti di compensazione dei conflitti ma anche manifestazione della nostra disattenzione per non aver saputo educare al rispetto dell’altro/a e alla giustizia. Sappiamo infatti riconoscere che questi episodi sono la manifestazione della sete di giustizia che i giovanissimi rivelano proprio con la negazione di essa: la violenza e la sopraffazione dell’altro è l’unico strumento che essi conoscono. Non possiamo passare oltre volgendo lo sguardo altrove scaricando quel compito di cura dei giovanissimi che dovrebbe essere uno dei cardini della nostra società, non solo perché i giovanissimi costituiscono il nostro futuro ma perché se abbandoniamo la cura e l’attenzione che essi meritano, avremmo una società con una parte di adulti che del rispetto dell’altro, della convivenza civile non sanno che farsene, regolando i propri rapporti con la violenza del forte sul debole.
    Allora, a chi ha sete di giustizia e non sa esprimere la propria sete se non rompendo la brocca che quell’acqua contiene, si dovrà portare un’altra brocca, e un’altra ancora se anche questa si è rotta, fino a quando il primo sorso non sia stato preso e la sete calmata. E’ in questa azione di altruismo e di comprensione del prossimo (il mio giovanissimo prossimo) che si vede tutta l’azione della carità e la cifra dell’essere cristiano in questa nostra società. Non di meno il compito riguarda tutti noi e non solo coloro con i quali si ha comunanza di fede. Poiché dunque in questo momento non vale la regola di voltarsi dall’altra parte e proseguire il proprio cammino di Paese e di società senza curarsi di coloro che vengono dopo di noi e ai quali lasceremo il passo, è giunto il momento di fermarsi un attimo a pensare e per ricercare la “medicina migliore” per curare questo disagio dell’animo dei giovanissimi e il nostro.
    Elisabetta Campus

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