NUOVI SCENARI DI POLITICA ESTERA DOPO IL RITIRO DELLA MISSIONE INTERNAZIONALE IN AFGHANISTAN
Il ritiro della missione internazionale dall’Afghanistan non potrebbe essere qualificato altrimenti che un fallimento della NATO, dell’UE e, più in generale dell’Occidente, come non hanno esitato a riconoscere molti dei ministri degli Esteri e della Difesa europei, che si sono riuniti lo scorso 2 e 3 settembre in Slovenia,lo stesso Alto Rappresentante per la Politica estera, Borrell, nonché la maggioranza dei commentatori.
A riguardo – tenuto conto anche conto delle discrasie tra gli alleati della NATO, a partire dai diversi punti di vista su natura e obiettivi palesatisi fin dall’inizio della missione, per giungere ai “diversi accenti” emersi tra gli alleati sui termini e sui tempi del disimpegno da Kabul – appare ingeneroso far ricadere tutte le responsabilità dello sfaldamento dell’esercito afghano sulle spalle del solo Governo di Kabul.
Si tratta di temi che sono stati discussi nel convegno “Un contributo per lo sviluppo di INSIEME” tenutosi a Verona lo scorso 5 settembre su iniziativa degli iscritti veneti del partito di ispirazione cristiana fondato a Roma il 5 ottobre 2020.
A Verona, lasciando ad una sede maggiormente specializzata l’analisi delle cause del tracollo afghano, ci si è invece soffermati sulle indicazioni da trarne per i nuovi scenari della politica estera che si vanno delineando.
A tale riguardo è emersa una prima serie di valutazioni attinenti agli effetti diretti della vicenda afghana sullo scenario internazionale. Tra questi emerge la grave crisi umanitaria della popolazione afghana – resa più tangibile dalle immagini delle persone aggrappate agli aerei in partenza da Kabul e dei bimbi lanciati oltre il filo spinato – dove circa 12 milioni di persone rischiano la fame e centinaia di bambini potrebbero morire di stenti. Si tratta di creare dei corridoi umanitari per consentire l’arrivo e la distribuzione di aiuti alimentari e consentire la messa in sicurezza delle migliaia di afghani, in particolare donne, minacciati per aver collaborato con le forze e le agenzie occidentali e il vecchio governo o solo per aver adottato abiti e comportamenti moderni. Come si potrà intervenire in loro aiuto,data l’inaffidabilità del regime talebano, senza un efficace raccordo della comunità internazionale e un’azione coordinata sui Paesi limitrofi (Iran, Pakistan, Cina, Tagikistan, Turkmenistan eUzbekistan) ma anche su tutti quei Paesi in grado di esercitare un ruolo o un’influenza sull’area, come Turchia, Russia, Qatar Arabia Saudita ed Emirati Arabi?
Analogamente si pone l’esigenza di elaborare adeguate strategie per evitare, una volta venuta meno la presenza occidentale, che si rafforzi la presenza nell’area di nuove e vecchie centrali del terrorismo e del traffico di droga internazionale.
Emerge altresì la necessità che possibili nuovi interlocutori del regime talebano si accaparrino le riserve internazionali di risorse minerarie strategiche, di cui è ricco l’Afghanistan, come l’uranio e le terre rare, idonee a movimentare miliardi di dollari e a incidere sull’economia globale maggiormente di quanto possa percepire il cittadino comune.
In tale quadro si dovrà sviluppare una riflessione sul tipo di interlocuzione da intavolare, da un lato, con le nuove autorità governative e, dall’altro, con gli eventuali rappresentanti della resistenza organizzata, che si tratti di un governo o di altre organizzazioni politiche in esilio o di forze ancora presenti sul terreno.
Come si vede, si tratta di temi troppo complessi perché possa incidere da sola la politica estera di un governo nazionale di media grandezza come quello italiano, cui invece può spettare un più efficace ruolo di impulso nell’ambito delle istituzioni internazionali e, soprattutto, di quelle europee, come indica l’opportuna proposta del Presidente del Consiglio Draghi di dedicare una riunione straordinaria del G20 alla crisi afghana.
Dalla crisi afghana emerge infatti chiaramente come lo shock subito, ascrivibile anche alla debolezza dell’Europa nel gestire delle situazioni di grave crisi, possa costituire un forte stimolo – una “sveglia, l’ha chiamata l’Alto rappresentante per la Politica estera, Borrell – per rilanciare la costruzione di una più efficace politica estera e di difesa dell’Unione europea.
La consapevolezza di tale debolezza – operativa, progettuale e, in definitiva, politica – dell’Europa diviene tanto più percepibile se si guarda agli effetti indiretti della crisi afghana.
Come faremo in futuro, in eventuali nuove situazioni di crisi in cui siano in gioco nostri interessi importanti, a rendere credibili agli occhi di necessari alleati locali gli impegni assunti dell’Occidente? Ma, domanda ancora più cruciale, in che misura e fino a che punto si potrà parlare di ruolo, posizione e interessi comuni dell’Occidente se, da un lato, cresce il disimpegno degli Stati Uniti dalle aree per noi più sensibili e, dall’altro, permane l’impotenza dell’Europa … “Gigante economico, nano politico e verme militare”?
Se si traccia una linea ideale da Kabul a Damasco emerge una sorta di mappa del disallineamento o quanto meno del disimpegno degli USA dalle aree di più vicino interesse per l’Europa: Kabul allora appare come l’ultima pedina (finora) di un progressivo – e non auspicabile – allontanamento degli Stati Uniti dall’Europa, iniziato con l’abbandono della in Siria e, più in generale, del Mediterraneo. Poiché la politica internazionale non ammette vuoti, alla riduzione della presenza militare e politica americana avviata già da Obama è seguito un progressivo espansionismopolitico, economico e militare, da un lato, della Russia e, dall’altro, della Turchia, dalla Siria alla Libia senza escludere varie altre aree della regione, come la Crimea e il Mar Nero.
Il disallineamento è cresciuto non solamente per le critiche, in parte meritate, rivolte da Trump agli europei per l’insufficiente contributo finanziario e militare alla NATO ma – e forse soprattutto – per la diversità di vedute su un altro importante attore della citata linea Kabul-Damasco: Teheran! Quanto si è indebolita un’alleanza che dovrebbe avere una comune strategia e, conseguentemente, una comune capacità di analisi e di intervento se è pervenuta a una diversa valutazione sulla pericolosità di uno stato terzo come potenziale potenza nucleare quale l’Iran?
Venendo da Damasco a Teheran forse pensiamo di aver toccato l’apice con la precipitosa fuga dall’Afghanistan, già prevista da Trump e resa esecutiva da Biden, ma come facciamo a ipotecare gli effetti del disimpegno dall’Iraq (per il momento limitato alle missioni di combattimento) preannunciato dal presidente Biden lo scorso 26 luglio?
Se l’asse dell’interesse degli Stati Uniti sembra ineluttabilmente spostarsi dall’Europa e Il Medio Oriente all’area del Pacifico, che ne sarà dell’Europa (come sembra confermare la recente notizia dell’accordo AUKUS tra USA, Gran Bretagna e Australia per l’impiego dei sommergibili nucleari nel Pacifico e il conseguente richiamo degli ambasciatori francesi da Washington e Camberra)? Siamo pronti ad assumerci gli impegni che ne derivano, evidenziato da ultimo in questi giorni con l’appello del Presidente della Repubblica Mattarella a rilanciare la costruzione della difesa europea?
Restando nel Mediterraneo dobbiamo chiederci cosa potrà fare l’Europa in altri potenziali focolai di crisi, come il Libano, paralizzato da una poco nota crisi energetica? Si tratta di una situazione suscettibile di costituire un detonatore in un Paese particolarmente vicino all’Europa, in termini geografici e culturali, crogiuolo di religioni e confessioni che coesistono civilmente in un mondo dilaniato da guerre fratricide. Così come ci dobbiamo domandare se e cosa farà l’Europa per difendere la fragile democrazia tunisina alla luce della crisi politica degli ultimi mesi.
Ma se san Paolo VI ci insegna che la pace non è solo assenza di guerra ma va costruita, allora dobbiamo altresì chiederci se l’Europa stia costruendo abbastanza guardando anche più a Sud, all’Africa continentale Subsahariana. Stando all’ultimo rapporto sulla sicurezza alimentare globale, nel 2019 quasi 690 milioni di abitanti del pianeta hanno sofferto la fame: nel 2019 in Africa i trovava in condizione di denutrizione il 19,1% della popolazione, ovvero più di 250 milioni di persone, con un aggravamento della situazione rispetto agli anni recedenti e più del doppio della media mondiale (8,9%). Si tratta dell’area del mondo con la più grave crisi alimentare, destinata solo a peggiorare a seguito della pandemia del Covid!
Lo scorso luglio è stato lanciato da alcune organizzazioni del volontariato cattolico la proposta – che è stata fatta propria da INSIEME – che il Governo italiano si faccia promotore, in ambito europeo e internazionale, di un Piano per la conversione di almeno una quota del debito estero dei Paesi più poveri dell’Africa in altrettanti Fondi nazionali africani di sostegno e investimento per micro-progetti e micro-imprese. Occorre immaginare, con iniziative come questa, la politica europea di sviluppo e di cooperazione con l’Africa nella prospettiva di un più convinto partenariato, come ribadito dal Presidente del Consiglio Draghi Intervenendo al G20 Interfaith Forum.
E’ plausibile, inoltre, l’assenza dell’Europa dalla crisi politica che vede in atto un sanguinoso conflitto interno in alcune aree di uno dei più grandi Stati africani quale l’Etiopia? E’ plausibile che i Paesi europei restino assenti o procedano in ordine sparso nelle varie aree di crisi del nostro grande Vicino?
Venendo ai profili istituzionali dobbiamo approfondire con un maggiore coinvolgimento dell’opinione pubblica temi quali la posizione dell’Italia sulla bussola strategica – il documento quadro che dovrebbe portare ad una revisione della politica estera e, soprattutto, di sicurezza dell’UE – e sulla Conferenza sul futuro dell’UE, che dovrebbe delineare alcune grandi opzioni istituzionali, tra le quali andrebbe inserito la previsione del voto a maggioranza anche per la PESC.
Infine, ma non come ultima fra le priorità, occorre che l’Italia, accogliendo l’esortazione di Papa Francesco, che ci dice che“Affinché sorgano nuovi modelli di progresso abbiamo bisogno di «cambiare il modello di sviluppo globale»”, si faccia propulsore di un nuovo modello di sviluppo, a partire dall’Europa ma avendo come obiettivo la comunità globale.
Si tratta di temi sui quali INSIEME potrà dare un significativo contributo, forte della sua scelta di guardare al Partito Popolare Europeo decisa nel citato congresso/adunanza plenaria dello scorso ottobre, che implica una scelta chiara per l’europeismo e l’atlantismo che non potrà che conferire maggiore forza e incisività alla sua azione.
Marco D’Agostini